Anna Mitgutsch: Austria/Gerusalemme, andata e ritorno

Beatrice Talamo

Abstract

Im Roman Abschied von Jerusalem erzählt Anna Mitgutsch von einer neuen geistigen aber auch konkreten Landschaft: ein Land zwischen Österreich und Jerusalem, fast ein Neuland, wo der Ich -Erzähler eine doppelte Identität mit sich bringt, um etwas Neues zu schaffen oder wiederzufinden. Die wesentlichen Fragen des Romans sind: “auf der Flucht wovor?” und besonders “wer bin ich?” Die Frau mit zwei Namen (Hildegard/Dvorah) manifestiert immer wieder ihre Suche nach einer neuen definitiven Identität, trotz ihrer Angst vor dem Verlust der Geborgenheit. Sie schwankt zwischen zwei Welten, von denen keine ihr gehört. Der Begriff “Fremdheit” wird zum Schlüsselthema des Romans und der Reflexionen Mitgutschs. Ihre ‘Schwellenexistenz’ wird langsam immer klarer und die Wüste, die sie manchmal beschreibt, wird zu einem Ort, einem Nicht-Ort, um ihre gefährliche Liebe zu einem jungen Terroristen zu leben. Jerusalem ist ein Ort der Tore, der Durchgänge, der Grenze, des Krieges. Die Fragen bleiben offen und sind so viele, daß es fast normal erscheint, als letztes Wort des Romans das Verb “warten” zu finden. Anna Mitgutsch wartet auf eine Antwort, die noch fern ist, weil sie viele unbekannte Gebiete umfaβt.

Nelle lezioni tenute a Graz nel 1999 e riunite sotto il titolo significativo Erinnern und Erfinden Anna Mitgutsch afferma:

Literatur ist nicht verpflichtet, Antworten zu geben, sondern Fragen zu stellen. Sie handelt nicht mit Ideen und Einstellungen, sondern sie ist stets konkret und handelt von realen Situationen und Individuen. Sie ist nicht Lebenshilfe und Anleitung zum besseren oder sinnhafteren Leben, sondern Ein Sich-Einlassen auf der Komplexitat der Wirklichkeit1.

Ed è proprio questo uno dei meriti dei romanzi di Anna Mitgutsch, anche se a volte sono stati sottostimati per un presunto eccesso di autobiografismo o relegati ad una cosiddetta “Frauenliteratur”2. Porsi dunque delle domande, invece che dare delle risposte, mettere in dubbio se stessa invece che affermare se stessa, trattare situazioni reali, fatti, e non solo riflettere su temi fondativi (anche se poi di fatto dalle situazioni concrete si passa, ovviamente, per uno scrittore di spessore, a questioni di tipo esistenziale). È questo il caso di Abschied von Jerusalem, pubblicato nel 1995 e tradotto in italiano con La voce del deserto3, privilegiando un elemento, un luogo di particolare significato all’interno del romanzo che però annulla il senso di distacco, di perdita, presente nel titolo originario.

Abschied’ implica non a caso invece la decisione o l’abbandono imposto da qualcosa, il ‘commiato da’, intriso di nostalgia: quello che forse farà la protagonista del romanzo (il mio ‘forse’ non è casuale).

Jerusalem è il luogo scelto stavolta dalla Mitgutsch per una trama di tipo diverso rispetto alle precedenti e in fondo alle successive4. Quasi un “unicum”, anche se alcuni temi a lei cari ricorrono anche qui. È un mediterraneo particolare e indeterminato al tempo stesso, incentrato su alcune linee di fondo comuni a tutta la sua opera, come la ricerca dell’identità, il viaggio e il confronto con l’alterità. È la meta per eccellenza del ritorno ebraico, la “terra promessa” dove si torna per restare, per costruire, ma (come nella realtà dell’Intifada del 1987 che sceglie Mitgutsch come tempo della narrazione) anche per distruggere, espropriare, creare nuovi confini, nuovi limiti, nuove barriere con violenza.

È dunque non solo luogo concreto di bellezza e di fascinazione, ma anche luogo simbolico di passaggio, di scontro, di sconfinamento possibile.

La protagonista femminile è a sua volta “dotata” dall’autrice di ben due nomi diversi: Hildegard e Dvorah. Il primo la definisce come donna austriaca, cattolica; il secondo rappresenta il suo ebraismo cercato e ritrovato, la sua scelta nuova, la sfida alla propria appartenenza familiare per affermarne un’altra: quella della nonna che durante la guerra e il nazismo è stata costretta a portare una sorta di maschera fino alla fine. Sfida, dunque e recupero di un’identità originaria, sottaciuta, nascosta, messa al bando, occultata, che lei ricostruisce attraverso i ricordi d’infanzia e ora vuole far riemergere per sé e per dare dignità e senso a chi ha dovuto subire persino in punto di morte un rito funebre diverso:

E a sorpresa mi assalì un’altra immagine: la zia Wilma, la figlia maggiore, che cercava di togliere la croce dalle mani della nonna già nella bara, ma le mani irrigidite non lo permisero, e allora mia madre, soave e spietata come una suora, trascinò la sorella lontano dalla cassa. Un’infamia, sussurrava una delle due, uno scandalo mormorava l’altra5.

Il viaggio che Dvorah -non più Hildegard- compie verso Israele e che continua a ripetere tre, quattro volte, spostandosi dall’Austria e dagli Stati Uniti dove lavora, verso Gerusalemme, è allora viaggio concreto (spesso autobiografico) ma anche simbolico.

Una volta “atterrati” nel tempo e nel luogo del romanzo, l’ambiente si delinea però in modo molto più complesso perché accade qualcosa che lei non si aspetta e che la travolge completamente: Dvorah si innamora perdutamente di un giovane, Sivan, che sostiene di essere armeno, mentre in realtà è un palestinese e – quasi sicuramente – un terrorista.

Come la Mitgutsch afferma, analizzando il proprio incipit, appaiono come Hauptthemen: «Angst[…]Flucht und Suche, die Ambivalenz von begründeter Furcht und paranoiden Wahnvorstellungen»6. L’ambivalenza diventa uno dei temi del romanzo perché Dvorah oscilla continuamente tra «Angst und Faszination, Fluchtimpuls und Verlockung»7.

La donna che vediamo nell’incipit si impone di non correre davanti al commissariato «wie eine Verbrecherin auf der Flucht»8. La donna dell’incipit che riflette e si e ci racconta i suoi pensieri ossessivi, è subito definita dall’ambiguità, da continue domande e strane affermazioni:

All’angolo della strada mi sono voltata indietro fuggevolmente, fingendo di volermi orientare, ma a quanto pare nessuno mi stava seguendo. Da lì sono ritornata direttamente all’albergo, più tranquilla dopo aver chiuso a chiave la porta della mia camera. Poi, attraverso le stecche della persiana ho guardato furtivamente giù in strada, per vedere se ci fosse qualcuno fermo là sotto e guardasse in su. Come se un pedinatore dovesse servirsi di metodi così palesi! Come se da tanto non sapessero già tutto su di me! Ma chi mai dovrebbe darmi la caccia? 9

E quindi – è ancora la Mitgutsch delle Grazer Vorlesungen– la tensione si delinea sulla domanda fondamentale: «Auf der Flucht wovor?», tanto che lei stessa parla di «Anklängen an den Kriminalroman»10.

Molte cose rimangono volutamente oscure nel testo che si costruisce per gradi con una struttura complessa (vielschichtig) in cui i monologhi interiori dell’Io-narrante si affidano a sensazioni, emozioni, diventano riflessioni, sfociano in squarci di ossessività e si intrecciano disordinatamente – almeno in apparenza – a ricordi di un passato che può essere remoto o prossimo. È il lettore che deve farsi attento per capire e ricostruire. Partendo dalla domanda fatidica dell’autrice «Wer bin ich?»11, si passa allora alle successive domande: chi è che racconta? E perché fugge e da cosa?

Il mio timore di essere vista e riconosciuta cresce di giorno in giorno. I loro sguardi d’intesa, da cospiratori, mi spingono a fuggire lontano, nella parte occidentale della città, dove mi sfiorano sguardi indifferenti, come se fossi una delle tante persone venute a fare acquisti. Eppure torno sempre a quei luoghi che separano le due realtà, dove “loro” trascinano alla luce del sole i miei segreti, stando ad osservare con un sorriso ironico. Anche se fra loro ci fosse uno con l’unico compito di pedinarmi, non lo riconoscerei. Longanime e discreto mi farà andare per la mia strada, ma deciderà lui quando mettere fine al gioco. E allora forse non riuscirò nemmeno a fare i bagagli […] che io rimanga o no qui ancora per alcuni giorni non modifica il fatto che sono in fuga. O che cerchi di fuggire, che è quasi la stessa cosa. In ogni caso non mi riuscirà più sparire e soprattutto io voglio essere trovata, altrimenti perché quasi tutti i giorni passerei davanti al commissariato se non desiderassi con tutta l’anima di mettere fine a questa situazione?12

La ripetizione ossessiva della condizione di fuggiasca/perseguitata abbinata a parole come ‘commissariato, verbale, interrogatori’, s’intreccia ad affermazioni di sapore esistenziale: «Non so in quale parte abito, se a Gerusalemme est o ancora nel settore occidentale della città e non voglio chiederlo»13. Il soggetto che racconta se stesso avrà un nome solo a metà del romanzo:

Nessuno qui conosce il nome che mi hanno dato al battesimo. Hildegard, il nome dell’altra mia nonna, la madre di mio padre. Solo Channa lo conosce, ho dovuto dirglielo, a lei non nascondo nulla, però anche lei mi chiama Dvorah […] Me lo sono imposto io quando misi da parte il battesimo e tutti gli altri sacramenti cristiani della mia infanzia e si compì quel mutamento radicale di cui la nonna aveva sempre parlato. Ma il vecchio nome compare ancora sul passaporto e nei miei documenti, Dvorah è rimasto un segno di sfida, probabilmente contro tutte le leggi borghesi14.

Dvorah è dunque il nome che la protagonista ha scelto per se stessa, quasi una vendetta, una rivendicazione per quello che durante la guerra è stato occultato:

Qualche volta mi attribuisco anche il cognome da ragazza di mia nonna, allora divento una donna a misura mia, nome nuovo, persona nuova, allora non ho più limiti imposti: Dvorah non ha più timori, nemmeno quello di non avere alcuna appartenenza, Dvorah è coraggiosa, non ha nessun passato di cui debba vergognarsi, soprattutto non ha nessun passato, nemmeno un’età, chi vorrebbe imporle il modo di comportarsi se i dati sul passaporto con cui è entrata nel paese non corrispondono più? […] Inoltre Dvorah non parla tedesco, lo conosce ma non le va di parlarlo […] Dvorah è esattamente la donna che avrei sempre voluto essere. Quando tornerò a casa dovrò riprendere quel nome imposto, odiato fin dall’infanzia, costringermi in un io che loro hanno escogitato per me credendo di farmi un favore e di accettarmi come sono15.

«Sospesa in qualche luogo nella terra di nessuno», la donna di Mitgutsch in questo romanzo rifiuta la propria identità imposta, sfida la società, “provoca” la propria origine austriaco-cattolica. Successivamente, però, uscirà fuori anche dalla nuova identità ebraica, o perlomeno sarà un’ebrea non-allineata, sfuggirà alle regole anche in questo secondo contesto, rifiuterà i consigli e gli avvertimenti degli amici. Dvorah è fondamentalmente “fremd”, ma non solo in Austria e non solo a Gerusalemme. Lo è per natura propria, ricalcando quello che Julia Kristeva dice: «Fremde sind wir uns selbst»16. Riferendoci al saggio in cui Mitgutsch analizza il concetto di “fremd” nella doppia valenza di straniero/estraneo, che per lei gioca un ruolo fondamentale nella vita e nella creatività, ci si può allora chiedere: Dvorah è/si sente straniera/estranea? E dove? In Austria ? A Gerusalemme? Qual è il suo “noi” di riferimento?

Il senso di profonda angoscia e solitudine che prova, ha a che fare non solo con la delusione e la frustrazione per una storia d’amore sbagliata e terribilmente pericolosa, ma anche con un senso di «Angst vor dem Verlust der Geborgenheit»17. Dvorah allora è doppiamente confusa e smarrita perché ha perso la Heimat della sua infanzia, ma forse ne ha trovato un’altra, quella vera, oppure – cosa ancora più rischiosa – è rimasta sospesa con coraggio: « Er[der Fremde] hängt zwischen zwei Welten von denen ihm keine gehört»18. Se è vero come afferma Kristeva, che «Fremdsein ist eine Gegenwart mit offenem Horizont»19, potremmo rinvenire nella sua scelta una grande, terribile libertà che Mitgutsch associa proprio al Fremdsein e all’arte in generale. In questa libertà può sorgere allora un diverso Standpunkt, una sorta di terza possibilità che però è assai difficile da sostenere perché sostanziata di solitudine estrema, in una sorta di «kosmischer Ortlosigkeit»20.

«Wie soll einer der niemals ‘Wir’ sagen durfte, zu einem Ich-Gefühl kommen»?21 si chiede però Mitgutsch, citando la problematica dello sconfinamento e della soglia, presente – com’è noto – già in Benjamin. La “Schwellenexistenz” di Dvorah22 è estremamente fragile, e, in quanto tale, può risultare pericolosa per la sua inaffidabilità, vive – come altri personaggi di Mitgutsch – in uno «Zwischenbereich der Nicht-Zugehörigkeit[…] sie sind anders und doch wie die anderen, Juden, aber doch der jüdischen Gemeinde fremd […] ihre Orte sind die Randgebiete der Städte, Wartesäle in Flughäfen, Grenzen»23. Caratteristiche, queste, implicite nelle descrizioni dei luoghi che la donna attraversa – da sola o con Sivan. Quanti confini, quante porte simboliche e reali, nominate con precisione, non tanto per smania di dettagli realistici, quanto per sottolineare la tensione continua e palpabile del territorio e di chi lo percorre. La risposta al problema da parte della Mitgutsch suona vagamente consolatoria; si parla di

Ein Ich, das man vielleicht nur imaginiert, erträumt, eine trotzige Behauptung, eine Illusion, aber nicht weniger wirklich oder existenzberechtigt als der Traum einer Gesellschaft von sich selber, […] ein Glücksfall der Fremdheit, gewiss, aber auch ein Ausweg24.

A complicare però la struttura del romanzo, entrano in gioco altri fattori e altre domande: 1) cosa significa l’innamoramento fra Dvorah e Sivan? e 2) che ruolo ha Gerusalemme, che occupa tanta parte del romanzo?

Sivan rappresenta oltreché l’amore, il pericolo, la minaccia, una minaccia di ulteriore sconfinamento rispetto a luoghi e identità. È inoltre un impulso sessuale e vitale forte di fronte a cui la donna si libera completamente:

Quasi mi sembra che questo luogo non sia un’ulteriore tappa del mio viaggio, ma la mia meta, come se fossi arrivata definitivamente in questa cima recintata dai rotoli di filo spinato della guerra dello Yom Kippur, con le capre di montagna sui pendii, protetta dal futuro, addirittura da me stessa e dalla mia smisurata voglia di vivere. Mi sento come quella pazza di settimane fa, durante una festa a Zfat, in mezzo al cortile ballava goffamente al suono dei tamburi, contorceva il corpo magro e logorato in un desiderio di tenerezza, finché uno la prese delicatamente per mano conducendola da una parte, forse per rispondere al suo desiderio, forse anche soltanto per sottrarla alla vista degli altri, ma lei era felice. […] Essere così tanto corpo mi è sempre parso animalesco, talvolta osceno. Mi accorgo di iniziare appena ora a capire, e se volessi rimanere qui dovrei imparare cose del tutto diverse da prima25.

Eppure Sivan è il nemico storico, cosa che la donna potrebbe capire facilmente, se volesse, dalle sue reazioni aggressive e violente rispetto al mondo ebraico, dalla selvaggia rabbia di fronte alle distruzioni provocate dagli ebrei:

Parlò dell’oppressione e della violenza da parte degli ebrei, neanche una volta parlò di Israeliani o di Israele, dei territori espropriati e delle case distrutte anche lì in quelle strade: guardati intorno, guarda! Parlò di vessazioni agli sbarramenti stradali, angherie quotidiane, umiliazioni, percosse, carcere […] guardati intorno! Il suo gesto incluse l’intera città che nell’oscurità rivelava solo isolate facciate di case. Uno slum, tutta la città è un unico slum! E loro non costruiscono, distruggono soltanto!26

C’è solo un luogo che può davvero accogliere i due amanti, un non-luogo che consente la temporanea sospensione delle recriminazioni, che cancella i confini reali e simbolici, che li nasconde nella loro perenne fuga dagli sguardi indagatori dell’una e dall’altra parte: die Wüste, il deserto27.

Il sospetto con cui si apre il romanzo – Dvorah è stata usata, manipolata? I terroristi hanno approfittato del suo passaporto, della sua auto col contrassegno ebraico per passare i posti di blocco e portare dell’esplosivo? – rimane sospeso. Sivan sparisce, si verrà a sapere dal giornale che è morto come tanti altri in un attentato. Eppure sorge un’ulteriore e più tragica questione all’interno del loro rapporto, vale a dire il legame misterioso fra colpevole e innocente, fra carnefice e vittima, cosa che si associa naturalmente al passato rimosso ma mai dimenticato del tutto della guerra e del nazismo:

Ho bisogno del mio persecutore – se esiste – anche per scoprire quella giusta tra le molte possibili verità, che a quanto pare possono coesistere fra loro anche quando si contraddicono. […] Voglio liberarmi da questo ambiguo pezzo di passato prima che mi uccida, perfino a costo di perdere i ricordi più belli […] Tutto questo per raggiungere una buona volta l’accesso alla chiarezza, per arrivare alla verità sulla base delle illusioni, quando una volta per tutte verrò a sapere se mi è toccato in sorte il più grande amore o il massimo inganno, perché niente in questa storia è stato quotidiano e meschino e io sono stufa di vivere contemporaneamente in due realtà che si stravolgono ininterrottamente e tentano di eliminarsi a vicenda28.

I nodi restano irrisolti, si ripropongono con delle varianti ma restano aperti ad interpretazioni. A causa di questo dubbio fondamentale sulla propria presunta complicità e quindi sul tradimento forse inconsapevole nei confronti del popolo ebraico – la Heimat appena ritrovata – Dvorah formula e cancella mentalmente ipotesi, ricordi, fatti accaduti e ricostruiti o immaginati e amplificati. Ma tutto si svolge nella sua mente, nel grande laboratorio dell’“Erinnern” che come Mitgutsch afferma, è quanto di più soggettivo e fragile possa esistere. In base a questa assoluta fragilità del reale (che tra l’altro si inserisce nella linea viennese della narrativa fin-de-siécle)29, a quest’inaffidabilità della verità, Dvorah immagina, racconta e, inabissandosi in vere e proprie ossessioni e manie di persecuzione, vive il momento in cui, pronta per lasciare finalmente Gerusalemme, sarà fermata e interrogata realmente dalla polizia. Dovrà rendere conto del proprio operato, dell’ingenuità, delle scelte, in fondo della propria libertà. Il “Warten” che aleggia su tutto il romanzo fin dalla prima pagina («Una nervosa attesa grava sempre sulla Città vecchia e ai suoi margini»)30– che è anche l’attesa realistica della guerra e della pace, degli attentati, delle bombe – d’improvviso chiude il romanzo:

Furono cortesi, sia la giovane donna che mi fece qualche domanda sul mio bagaglio sia il funzionario della sicurezza che trattenne il mio passaporto, mi pregò di seguirlo e mi guidò per lunghi corridoi fino alla stanza illuminata e con l’aria condizionata dove ora sto in attesa31.

Quel presente improvviso ed assoluto sembra svelare/smascherare l’intero romanzo come una sorta di spaccato temporale costituito da infiniti punti e momenti di passati diversi, quasi si potessero delineare possibilità straordinarie di percezione del soggetto che confusamente ricostruisce il proprio tempo circoscritto mentre aspetta…cosa? Un verdetto? Un arresto? Un giudizio? Un’esclusione definitiva? Un’accusa concreta per complicità? E così la colpa presunta di tipo esistenzial-simbolico si allarga a colpa reale, politicamente motivata. O viceversa.

Se Kate Evans sostiene che l’Austria è onnipresente nel romanzo, sfondo implicito pur se sottaciuto32, a me sembra invece che la grande novità di Abschied von Jerusalem rispetto ai precedenti romanzi sia proprio la scelta di una nuova dimensione spaziale, un Mediterraneo articolato fra Gerusalemme, Gerico, il paesaggio del Mar Morto, i kibbutz sulle montagne, il deserto. Anche gli Stati Uniti, spesso scelti dall’autrice come meta a cui arrivare e poi abbandonare (con tratto autobiografico), questa volta cedono il passo a un luogo di grande bellezza e complessità di significato. Una terra promessa dove Dvorah ritorna in continuazione, non riuscendo a sottrarsi alla seduzione e alla ambigua conflittualità che vi respira. Luogo di continui passaggi-fisici e mentali-, di insediamenti nuovi e di case diroccate, di alberghi per turisti e cimiteri dove Sivan e Dvorah si incontrano, si aspettano, fanno l’amore nascosti da tutti.

La città diventa il terzo protagonista della storia: manifesta violenza, esprime sensualità, mostra soglie su cui fermarsi o avere il coraggio di attraversare, seduce ed esclude, fa impazzire, come dicono alcuni a Dvorah usando un termine ebraico: «Gerusalemme rende tutti meshugge»33.

La bambina austriaca del primo romanzo della Mitgutsch, Die Züchtigung (Tua madre era come te?), che si consuma in un conflitto terribile con la madre e col proprio passato di violenza e percosse sullo sfondo di un momento storico drammatico, si è allontanata finalmente dall’Austria e attraverso una serie di passaggi verso la rivelazione del diverso34, ci conduce ora ad un nuovo tipo di estraneità femminile, matura e consapevole, in cui l’attesa può svolgere un ruolo importante e contribuire alla definizione del sé. Nuovo.


1 Anna Mitgutsch, Erinnern und Erfinden, Wien 1999, p. 89.

2 Ne discute Kristen Teuchtmann, Zur Darstellbarkeit der Zeit: Erinnerung und Erfindung in Anna Mitgutschs Die Züchtigung und Haus der Kindheit, in “Modern Austrian Literature”, Vol. 35, N.1/2, 2002, p. 43.

3 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, trad. it. P.Buscaglione Candela, Firenze 2008.

4 Nel romanzo Haus der Kindheit (in it. La casa della nostalgia) il protagonista, eccezionalmente figura maschile, lascia gli Stati Uniti per tornare in Austria ad H., e ritrovare la casa della sua famiglia, confiscata durante il nazismo. Ma alla fine deciderà di ritornare in America, perché sente che lì non ha più le sue vere radici.

5 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, cit., p. 59.

6 Anna Mitgutsch, Erinnern un Erfinden, cit., p. 149.

7 Ivi, p. 150.

8 Anna Mitgutsch, Abschied von Jerusalem, Berlin 1997, p. 7.

9 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, cit., p. 7.

10Anna Mitgutsch, Erinnern und Erfinden, cit., p. 150.

11 Come sottolinea Wolfgang Hackl, in Fremde und Aussenseiter in den Romanen von Anna Mitgutsch, in Anna Mitgutsch, hrsg. von K.Bartsch, G.A. Höfler, Graz, Wien 2009, p. 63.

12 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, cit. p. 8.

13 Ibidem

14 Ivi, p. 61.

15 Ibidem

16 Cit. in Anna Mitgutsch, Versuch über das Fremdsein, in “Die Rampe” cit., p. 24.

17 Ivi, p. 10.

18 Ivi, p. 13.

19 Ivi, p. 15.

20 Ivi, p. 24.

21 Ibidem

22 Cfr. Gunhild Schneider, La scelta della soglia, Esistenze liminali nell’opera di Anna Mitgutsch, in Luoghi non comuni, Contrasti nella letteratura austriaca contemporanea, a cura di E. Agazzi, Torino 2000, p. 15.

23 Gunhild Schneider, Die Schwelle ist mein Ort, in “Die Rampe”, Hefte für Literatur, Porträt Anna Mitgutsch, Linz 2004, p. 47

24 Anna Mitgutsch, Versuch über das Fremdsein, cit., p. 26.

25 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, cit., pp. 164-165.

26 Ivi, pp. 175-176.

27 Cfr. Kristin Teuchtmann, Topographische Poetologie in Anna Mitgutschs Oeuvre, in “Die Rampe”, Porträt Anna Mitgutsch, cit., p. 53.

28 Ivi, pp. 189-190.

29 Cfr. l’inaffidabilità del soggetto narrante in diversi romanzi di Leo Perutz, ad esempio St. Petri Schnee o Zwischen neun und neun. Cfr. anche il discorso sulle «Erinnerungsobsessionen des Wiener fin de siècle» in Monika Shafi, “Enteignung” und “Behausung”: Zu Anna Mitgutschs Roman Haus der Kindheit, in “Modern Austrian Literature”, Vol.36, N.1/2, 2003, p. 33.

30 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, cit., p. 7.

31 Ivi, p. 216.( « […] wo ich nun warte.»).

32 Cfr. Kate Evans, Anna Mitgutsch: Abschied von Jerusalem: Ein Sich-Einlassen auf die Komplexität der Wirklichkeit, in Von aussen betrachtet, Österreich und die österreichische Literatur im Spiegel der Auslandsrezeption, hrsg. von A.Bushell, D.Kost’àlovà, Bern 2007, p. 93.

33 Anna Mitgutsch, La voce del deserto, cit., p. 132.

34 Cfr. le altre figure femminili di Mitgutsch che rappresentano sempre creature diverse, ai margini, in Das andere Gesicht, Ausgrenzung, In fremden Städten, Haus der Kindheit.