Danni di guerra permanenti?
Soldati, reduci, anarchici nell’opera di Leo Perutz

Beatrice Talamo
(Università degli Studi della Tuscia, Viterbo)
talamob@gmail.com

 

Abstract

Der Zusammenbruch der Kaiserreiche in Zentraleuropa wird immer mehr von der Historiographie als privilegierter Ausgangspunkt für Überlegungen über die Kategorien von Staat, Nation, Minderheiten betrachtet. Der Beitrag analysiert die Übergangsphase vom ancien régime zu einer “Staatsbürgerliche Revolution”, d. h. einer bürgerlich-demokratischen Revolution. Die Protagonisten der Anfänge der Ersten Republik Österreich, Parteien, Länder und Bürokratie, brachten die Erfahrungen, die sie während der späten habsburgischen Zeit gesammelt hatten. Die Zäsuren der Jahre 1918-19 scheinen dabei mehr politischer und territorialer Natur zu sein, als die sozialen und wirtschaftlichen Beziehungen zu betreffen.

 

Nel fluire del tempo non vi sono cause prime né conseguenze ultime. La storia è movimento: non solo le vicende, ma anche gli effetti e le interpretazioni. E tuttavia la Grande Guerra – come già la generazione ad essa successiva aveva chiamato la prima guerra mondiale- ha il valore di una profonda rottura nelle forme dell’esistenza, nel pensiero e nella politica e quindi deve esser considerata una cesura storica […] Alla fede nel progresso, di epoca industriale, non si era mai disgiunta neppure all’inizio, la paura del baratro.1

Leggendo le parole – poche – che cito dal saggio dello storico Michael Stürmer, mi hanno subito colpito i due elementi che avevo già colto in alcuni testi narrativi di Leo Perutz, in qualche modo collegati alla prima guerra mondiale: il tempo fluido – in movimento – e l’angoscia reale o presunta del baratro, dell’abisso in cui l’Europa stava precipitando. E d’altra parte la percezione nuova del tempo, influenzata dagli studi dello psichiatra francese Eugene Minkowski,2 la filosofia di Henri Bergson, la teoria della relatività di Einstein, si occupano fondamentalmente di indagare i modi nuovi della percezione temporale. Come ben racconta Kern, “le idee di questo periodo sulla natura del tempo saranno organizzate intorno a tre coppie di concezioni opposte: tempo concepito come omogeneo o eterogeneo, atomistico o come flusso, reversibile o irreversibile”3.

A livello politico, poi, la “gestione” del tempo diventa una assoluta necessità e a Parigi viene ospitata nel 1912 la Conferenza Internazionale sul Tempo che elabora un metodo uniforme per determinare e conservare segnali orari accurati e trasmetterli nel mondo. Il tentativo di razionalizzare il tempo pubblico si scontra in continuazione proprio in questi anni dunque con i tentativi artistici e narrativi di affrontare invece il tempo privato, soggettivo, e sul come riuscire a “esprimerlo”. Basti pensare alla resa pittorica impressionista delle ore particolari del giorno, ai quadri di Cezanne con orologi neri senza lancette4, all’orologio di Juan Gris in cui nell’orologio cubista “il tempo è frammentato, discontinuo e ambiguo”5. O ancora a L’Enigma dell’ora di Giorgio de Chirico e agli orologi di Salvator Dalì che si liquefano6.

Ma se il tempo diventa un flusso non misurabile e viene a livello narrativo “smantellato”, allo stesso modo la coscienza umana è percepita come un flusso di sensazioni, di emozioni, da indagare e penetrare, a volte con assoluta discrezione, altre volte con audacia, grazie alla libertà nuova con cui ci si accosta alla psiche e al suo rapporto con la cosiddetta realtà e con il passato e il presente, o meglio ciò che arbitrariamente chiamiamo presente. Del futuro non si può naturalmente sapere nulla, né ipotecare alcunché. Uomo nuovo, dunque, che coglie se stesso all’alba di vere rivoluzioni, eppure allo stesso tempo individuo smarrito che si accorge di essere sull’orlo del baratro. A questo punto potrebbe scattare il discorso sulle situazioni liminali, sul coraggio con cui alcuni autori oltrepassano la soglia del già noto ed esperito, ma la problematica si farebbe ancor più complessa.

Di quegli anni e delle scoperte rivoluzionarie che li accompagnano, testimoniano le arti, le nuove scienze, e naturalmente la narrazione. Superfluo citare Proust, Schnitzler e, successivamente, Joyce e Woolf.

Fermiamoci però ora a Leo Perutz che, pur considerato autore minore, e spesso relegato a ruoli marginali, coglie invece molto attentamente i “terremoti psichici” dell’epoca7. Perché in fondo di questo si tratta: quando Leo Perutz si arruola per combattere e assiste in prima persona, anzi vive dall’interno la guerra, memorizza e registra soprattutto le trasformazioni psichiche che vede attorno a sé. Appunto quelli che ho definito “i danni di guerra permanenti”. Perché non sono soltanto i cadaveri che vede e che sono la conseguenza logica della guerra, a colpirlo, ma le trasformazioni irreversibili, le psicosi, l’impossibilità del tornare alla normalità, quasi sempre. Poi, però, a volte, avviene un salto fondamentale che cambia il segno di molti suoi racconti: la possibilità della “redenzione”, la seconda chance data ad alcuni, non a tutti, come peraltro è nella vita e le cui ragioni permangono misteriose. Alcuni resteranno per sempre danneggiati (fisicamente o psichicamente), altri si suicideranno, ma qualcuno ce la farà. E uscirà dal baratro, come se avesse sperimentato e attraversato le tappe, i passaggi del dolore, dell’orrore, della colpa e della responsabilità del proprio agire e riuscisse a provare pietà di se stesso e degli altri uomini, una pietà umana e religiosa al tempo stesso. Quasi fosse il tracciato di un “Bildungsroman”, l’eroe/non eroe è reso consapevole delle prove e dalle prove e, in quanto creatura umana, si salverà e potrà reincamminarsi su una strada ignota al lettore ma comunque esistente. In questo, Perutz percorre una strada ebraico-cristiana molto personale, come peraltro mostra spesso la raffigurazione dei suoi diversi “ewige Juden”. Ebrei erranti maledetti nel tempo, condannati ad errare, ma capaci di piangere perché “avanguardia della distruzione” come l’ebreo errante del marchese di Bolibar.8

In uno dei racconti più belli del suo capolavoro Di notte sotto il ponte di pietra, La sarabanda, appare la stessa chiave: a salvare il conte incrudelito e punito quasi a morte, è la sua richiesta di pietà, urlata per le strade del ghetto di Praga, a cui risponderà il Rabbi Loew, facendo apparire sul muro di pietra un Ecce homo di fronte a cui si inginocchieranno tutti, lui e i soldati che lo scherniscono. E la danza macabra cesserà.9

E in fondo nel racconto russo che dà il titolo alla raccolta Herr, erbarme dich meiner, non sarà una preghiera sussurrata, una richiesta di pietà, “Gospody pomiluj!”, ad aiutare il protagonista Woloschyn a decifrare il dispaccio che può salvargli la vita? E quanto conta il tempo anche in questo racconto? Quanto insiste Perutz sullo scorrere fatale e crudele delle lancette che lentamente segnano l’avvicinarsi alla morte del protagonista se non riuscirà a decifrare ciò che gli è stato dato:

Es ist viertel fünf. Mehr als die Hälfte der Zeit ist schon vorüber. Warum haben sie mir diese Uhr hier hergestellt? Eine teufliche Folter, immer muss ich auf die Uhr sehen….jede Minute ausnützen…in zwei Minuten ist es halb sechs. Diese zwei Minuten – wenn ich die Augen schliesse, die Gedanken sammle, nur zwei Minuten lang-zwei Minuten fehlen noch auf sechs Uhr. Zu spät. Was kann ich noch mit diesen zehn Minuten beginnen. Es ist aus. er wird erschossen werden. Nein! er will leben, er muss leben!10

Woloschyn, uomo perdente e perduto, specializzato in sistemi di codici cifrati -come lo stesso Perutz è stato realmente, una volta dimesso dall’ospedale di Stry dove era ricoverato per una grave ferita ai polmoni – è pronto a morire in un sistema politico nuovo di cui non accetta i valori e di cui non capisce il senso. È un arreso al destino e alla storia perché crede che la moglie e il figlio siano morti. Ma quando scopre che non è così, accetta l’incarico e lotta disperatamente per la propria vita. A questo punto Perutz innesta il gioco drammatico fra le poche ore concesse e la possibilità di salvarsi. Tempo e abisso. Siamo alla fine dell’anno 1918 in Russia.

E Woloschyn, chiuso in una stanza ma osservato attraverso i vetri da curiosi che ne osservano i tentativi sempre più affannosi, lotta disperato per la propria vita:

Woloschyn hat es mit elf verschiedenen Chiffrenschüsseln versucht und jetzt hält es beim zwölften. Draussen an der Glastür stehen Leute, sie wissen, im ganzen Haus weiss man es, dass in diesem Zimmer ein Mensch verzweifelt um sein Leben kämpft. Sie sehen neugierig zu […] sie pressen die Gesichter auf die Scheiben, ihre Nasen sind plattgedrückt. Einer von ihnen sieht aus wie ein Chinese.11

La salvezza del singolo nel finale viene estesa a tutta l’umanità:

Und manchmal denke ich, dass alle Menschen dieser Erde, die hochmütigen und die gedrückten, die, die fest im Dasein wurzeln, und die armseligen und schwachen, dass die Untadeligen und die Sünder, die Richter und die Verurteilten-dass wir alle, die wir leben und kämpfen, diesen Namen tragen könnten.12

Anche nel secondo racconto della stessa raccolta, Dienstag, 12.Oktober 1916, si assiste al collegamento fra un soldato ricoverato in Russia in ospedale e il tempo che lentamente si impadronisce della sua mente. La percezione temporale abnorme, collegata alla lunghissima degenza, distrugge il rapporto normale che il soldato ha con la realtà: esiste un giorno, un unico giorno per il Reservekorporal Georg Pichler, quel giorno di cui legge sul giornale le notizie per centinaia di volte. Il tempo onnivoro ha divorato la sua mente e la realtà obiettiva, e quando tornerà a casa dopo due anni, primavera 1918, il reduce non riuscirà più a ritrovarsi nella propria città e nel tempo nuovo e reale. Come fosse un loop, scorreranno nella sua mente le stesse notizie, gli stessi eventi di quel martedì 12 ottobre 1916:

Um diese Zeit hatte er das Morgenblatt von Dienstag , den 12. Oktober 1916, zweihundertsiebzigmal gelesen. Dieser Tag – der 12. Oktober 1916 – hatte von ihm Besitz ergriffen. Dieser Tag hatte ewiges Leben, hatte alle anderen Tage verschlungen, es gab nur ihn […] Die Zeit war stehen geblieben am Dienstag, den 12.Oktober 1916.13

L’ “io insalvabile” di Ernst Mach e Hermann Bahr si ritrova disperso e frantumato nella realtà del dopoguerra, in un tempo fermo e bloccato che non ha vie d’accesso alla realtà e al futuro.

Nel lungo racconto Das Gasthaus zur Kartätsche14 la guerra è espressa per figure: il maresciallo Chwastek, gli ufficiali, i genieri. L’atmosfera però è fondamentalmente dominata da un’aria di guerra trascorsa, da sensazioni di volgarità che saturano l’aria fumosa dei locali dove ci si ubriaca, si palpeggiano donne, e si cantano canzoni scurrili, si brinda e si gioca per dimenticare. Che l’azione si svolga a Praga, viene detto solo alla fine, nell’ultima riga, quasi casualmente. Ma il perno della narrazione che parte dall’azione finale – il suicidio di Chwastek – si gioca sul rapporto fra il maresciallo e il giovane attendente. L’uno abbrutito e deluso, incapace di affrontare la realtà del presente e l’altro, sedotto dalla personalità burbera e perdente del superiore. Nella scena di sapore kafkiano in cui i genieri si avvicinano alla tavola dei due come fossero scarafaggi viscidi e violenti, la spiegazione del maresciallo spiazza il lettore:

D’un tratto, però, balzai su spaventato, afferrando il braccio del maresciallo che, frattanto, era di nuovo seduto al tavolo vicino a me e fissava muto il suo bicchiere. Attraverso il fumo denso del tabacco, attraverso i vapori del vino e della birra, vidi nell’osteria degli esseri mostruosi, grossi e pesanti, che strisciavano fuori dagli angoli, lenti e maldestri. Sembravano degli insetti giganteschi e disgustosi, un groviglio di piccole teste nere e lunghe zampe sottili. Ci fissavano coi loro occhi verdi e strisciavano sempre più vicino a noi, proprio verso di me e il maresciallo. Urlai per il ribrezzo e l’orrore e afferrai il braccio del maresciallo. Lui però restò calmissimo e udii la sua voce che risuonava estranea e velata, come da grandi lontananze: “Non è niente! Continui pure a dormire. Sono solo i miei ricordi. Non abbia paura! Riguarda solo me. Sono i giorni del passato”. Ma all’improvviso non erano più i ricordi, non i giorni passati, e neppure degli insetti: erano i genieri, le “mosche di latta” con i loro berretti scuri, ora li riconoscevo. Erano loro che, vedendo il maresciallo da solo, si gettavano su di lui, muti, vendicativi, pieni di rancore.15

I ricordi. Ma se sono realmente i ricordi del maresciallo, suoi personali, come possono diventare visibili anche al giovane? E assumere quasi una vita propria?

Come può il passato diventare visibile anche a chi quel passato non lo ha vissuto? Eppure il suo fascino pericoloso, il non riuscire a dimenticare – l’incrocio quasi labirintico fra le linee dell’ Erinnern e del Vergessen – colpirà proprio il maresciallo che più volte ammonisce il giovane con la frase:

Si ricordi: non c’è sfortuna più grande per un uomo, di quando all’improvviso finisce nel proprio passato. Se ci si perde nel deserto del Sahara, se ne viene fuori più facilmente, credo, di quando ci si smarrisce nella propria vita passata.16

Ricordare, dunque, può equivalere a perdersi nel proprio passato e diventa strada terribile e pericolosa, tant’è che, una volta imboccatala, il maresciallo si sparerà a morte. Non a caso Perutz dedicherà all’arma, il fucile, e soprattutto al proiettile, una lunga descrizione che occuperà una pagina:

Il proiettile è uscito fragorosamente e gli ha attraversato il petto […] intanto non si era fermato subito ma dopo aver fatto il suo dovere, aveva preso l’iniziativa e causato ancora danni e sciagure di ogni tipo, attraversando la stanza e sfondando di netto il ritratto dell’imperatore appeso alla parete. Poi era andato a finire nel grande dormitorio del padiglione, dove aveva fracassato il ginocchio alla recluta rutena Hruska Michal di Tremblowa, Galizia orientale, […] aveva poi sorvolato il cortile, felice della sua forza e della sua libertà, cantando lieto come una giovane fanciulla che corre per la strada canterellando […] era passato vicino alla testa del luogotenente Hayek […] aveva fatto a pezzi il calcio di due fucili appesi alla parete del corridoio […] A questo punto però aveva cominciato a sentirsi finalmente stanco ed era rimasto conficcato nel grande orologio a sveglia […] finché dopo molte settimane l’orologiaio lo trovò nella cassa dove bloccava l’ingranaggio, standosene rannicchiato, sazio e soddisfatto, fra viti e molle.17

Al proiettile Perutz dedica il proprio ambiguo amore visto che sarà anche il titolo del suo primo romanzo, Die dritte Kugel18, dove però si accompagnerà a visioni di sangue e distruzione nel Messico di Cortez e Montezuma.

Nel lungo romanzo Wohin rollst du, Äpfelchen?19 viene invece affrontata in modo esplicito la problematica, assai frequentata all’epoca, del reduce cui non riesce il reinserimento in patria, una volta tornato dalla guerra. Quello però che rende interessante il testo perutziano, è l’angolazione scelta e l’uso del monologo interiore. Vittorin torna infatti non per restare e provare di nuovo a vivere, bensì per riandarsene: fin dall’inizio sa bene che lo farà, e non tanto perché non riesce a reinserirsi – in realtà ritrova facilmente il lavoro, la fidanzata, la famiglia, una situazione economica che potrebbe essere soddisfacente -, quanto perché la sua mente è ossessionata dalla vendetta. L’ossessione lo condurrà infatti in giro per l’Europa alla ricerca del comandante russo Seljukow che lo ha mortificato verbalmente. Si faccia attenzione, verbalmente. È questo che corrode la mente di Vittorin, l’aver subito una mortificazione ingiusta. Qualche parola e un atteggiamento sprezzante. Di più non viene detto nel libro. È dunque la nevrosi grave di un uomo, amplificata dalle esperienze della guerra, che trasforma il sentire di Vittorin in una violenta molla d’azione. L’energia che lo muove e lo porterà in giro per l’Europa alla ricerca del “nemico” è frutto di una distorta percezione dei fatti, dell’amplificazione di un evento piccolo, insignificante in fondo, rispetto a quello che accade in guerra. Ciononostante l’eco reiterata e risentita ossessivamente nella mente guiderà la sua corsa affannata, il suo “rotolare” come la melina del canto popolare russo, fino alla scoperta paradossale del nuovo indirizzo del comandante ricercato. Come in un gioco dell’oca carico di amarezza, Vittorin troverà proprio a Vienna, la sua città, la città da cui è partito per la folle ricerca, il negozio di vecchi giocattoli russi in cui un tranquillo e pacificato Seljukow vive, cavandosela come può. L’incapacità di uscire dalla gabbia del passato che diventa anche gabbia del futuro, d’improvviso scompare, si scioglie e in modo forse un po’ repentino, Vittorin, che ha vissuto da “Aussenseiter”, ai margini della legalità, alla periferia della storia, come quasi tutti i personaggi di Perutz, che è diventato di nuovo un soldato, un rivoluzionario, un anarchico, che ha trascinato la propria vita e la propria microstoria, contribuendo alla macrostoria della Russia – tutto in modo apparentemente casuale – entra in modo quasi soave nella realtà.

E con un gesto Vittorin cancellò due anni della sua vita, due anni in cui era stato avventuriero, assassino, eroe, scaricatore di carbone, ruffiano e vagabondo – un gesto d’indifferenza che valeva per una mattinata perduta e un cappotto zuppo e non tradiva nulla.20

Anche questo appare allora una sorta di percorso formativo, di “Bildungsroman” dell’individuo, con una rivelazione un po’scontata rispetto all’inutilità della vendetta. Quello che vuol esprimere Perutz è sicuramente la presa d’atto di un evento terribile che ha annientato, oltre che l’ordine civile e morale dell’umanità, le singole esistenze, sconvolgendole fin nelle fibre più riposte dell’anima e della psiche. A qualcuno come Vittorin è stata data la possibilità di fare un percorso folle e, miracolosamente, uscirne integro fisicamente e psicologicamente: una faticosissima elaborazione che va a buon fine.

Nel mio breve intervento sul rapporto fra Perutz e la Prima guerra mondiale, ho lasciato per ultimo Dalle nove alle nove per diversi motivi. Primo fra tutti, il romanzo non sembra aver nulla a che fare con la guerra: non compaiono soldati, né reduci, né territori devastati, né rivoluzionari, né pallottole. Eppure è scritto da Perutz nel 1917 e pubblicato nel 1918. Cercando fra le notizie che ne riguardano la stesura e che testimoniano il grande interesse suscitato dal testo persino in personalità come Murnau, Hitchcock, Truffaut21, troviamo un articolo dello stesso autore che racconta:

Dieses Buch wurde im Herbst 1917 geschrieben, in einer Zeit, als die Menschheit noch keine in Ketten geschlagenen Völker kannte. Der Fall von Stanislaus Demba, dem Helden dieses Romans, war damals ein groteskes persönliches Schicksal […] In der ungarischen Stadt Szolnok, als ich dort im Frühling 1916 auf den Abgang meiner Marschkompanie wartete, entstand in mir der Gedanke dieses Romans. Ich sass im Kaffehaus […]in der grössten Unsicherheit über meine unmittelbare Zukunft […] da tauchte plötzlich in der Tür des Kaffehauses die Figur eines jungen Mannes auf, dessen Anblick mich mehr verblüffte […] sein unsteter Blick, die eigentümliche Art, mit der er seinen Arm und seine Hand unter seinen Wetterkragen steckte. Einige Augenblicke starrte er – mit unverständlicher Erregung- in den Zigarettenrauch des Kaffehauses, dann machte er Kehrt um und verschwand. Ich sah ihn niemals mehr. Er war Stanislaus Demba.22

Perutz dunque si trova in guerra, seduto in un locale fumoso, e vede l’uomo inquieto, agitato, un che di misterioso sotto il mantello. Lo sguardo inquieto e il suo improvviso e repentino dileguarsi che non dimenticherà più, gli ispira quello che avrebbe dovuto essere il titolo originario: Freiheit. Il desiderio di libertà diventa dunque il filo conduttore della storia: nel mondo viennese ancora gaudente e inconsapevole che Perutz descrive, Demba, studente intelligente e anarchico, si aggirerà su un fondale costellato di stereotipate maschere con atteggiamenti prevedibili, nascondendo le proprie mani, mani ammanettate. Non potrà mostrarle, non potrà usarle e sarà giudicato, inseguito, disprezzato. Fino al tragico epilogo in cui, pur di non essere arrestato e quindi privato di quella libertà residuale, si lancerà dall’abbaino. Solo così, scegliendo la morte, riavrà le mani libere. Solo così le sue mani e i suoi occhi – le parti di un uomo e non più il suo intero – potranno vagare libere da ogni giudizio e pregiudizio per Vienna, la città che Perutz amava tanto ma di cui ben conosceva la superficialità edonista e la vocazione all’inconsapevole sfacelo. In questo rapporto che Perutz descrive fra Demba e le istituzioni, fra il libero individuo e l’ordine costituito, interviene con mossa geniale però anche il fattore tempo. Perché in realtà quello che viene descritto da un certo momento in poi, non è realmente in atto, non avviene di fatto, ma solo nella mente di Demba che sta precipitando. Sono le visioni ultime del soggetto morente. Quindi “dalle nove alle nove” diventa l’ora zero, l’ora della morte.

L’orologio di un campanile batte. Nove volte. Mattina? Sera? Dove sono? Da quanto sto qui e sento battere l’orologio del campanile? Dodici ore? Dodici secondi? […] Allorché i due poliziotti – poco dopo le nove di mattina – misero piede nel cortile della casa del rigattiere nella Klettengasse, Stanislaus Demba era ancora in vita. […] Aveva le membra fracassate e da una ferita dietro alla testa usciva del sangue. Solo i suoi occhi si muovevano. I suoi occhi vivevano. I suoi occhi erravano senza sosta per le strade della città, vagavano sopra giardini e piazze, si immergevano nella rumorosa confusione dell’esistenza, si precipitavano su e giù per le scalinate […] giocavano, mendicavano, assaporavano per l’ultima volta la felicità e il dolore, l’esultanza e la delusione, furono vinti dalla stanchezza e si chiusero. Per la violenza della caduta le manette si erano spezzate. E le mani di Demba, quelle mani che si erano nascoste nella paura, indignate nel rancore, strette a pugno dalla rabbia, inalberate nel lamento, che mute avevano tremato nel loro nascondiglio, combattuto nella disperazione con il destino, che si erano ribellate con ostinazione contro le catene – le mani di Stanislaus Demba finalmente erano libere.23

Nella società del “prima” – la Vienna gaudente e superficiale – non c’è posto per l’uomo del “dopo” che si spezza e si frammenta. Da un lato le maschere svuotate dei viennesi, dall’altro lo scomposto agire apparentemente insensato di Demba che solo a Steffi, l’amica marchiata anch’essa nella diversità da una cicatrice sul volto, racconta e proclama la propria idea di castigo e di pena:

Questa sproporzione fra colpa e castigo […] Bisogna chiamare la cosa col suo vero nome. La prigione è l’ultimo rimasuglio della tortura e il più terribile. Essere rinchiusi giorno e notte in una stretta cella, come un animale in gabbia – non è un supplizio quello? […] Certo dev’esserci un castigo. Ascolta Steffi, voglio confidarti un segreto, ma non spaventarti: non dev’esserci proprio nessun castigo […] rosso per l’eccitazione, balbettando con voce roca e fanatica, proseguì: Non dev’esserci nessun castigo. Il castigo è follia. È l’uscita di sicurezza verso la quale ci precipitiamo quando nell’umanità si diffonde il panico. È il castigo ad avere la colpa di ogni crimine che viene o verrà commesso.24

La caduta di Demba è allora forse la caduta nel baratro di cui parlava Stürmer. Così come reinventarsi un tempo diverso da allungare o concentrare a piacimento ha a che fare con la nuova dimensione temporale di cui si parlava all’inizio. La percezione del tempo privato da parte del soggetto dà a Perutz infinite possibilità, qui, come in altri testi. Sicuramente le categorie tradizionali di passato presente e futuro suonano in modo nuovo nei suoi scritti e non a caso si è parlato delle influenze esercitate su di lui dalle correnti della Vienna fin de siècle.25

A me viene in mente l’Angelus Novus di Klee e lo scritto di Benjamin che Franco Rella cita, parlando della fragilità dell’immagine:26

C’ è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.27

Se, come fa Rella, cogliamo delle associazioni fra arte, filosofia e letteratura, ritroviamo il senso del frammento e del frammentario ( le parti residuali di cui scrive Perutz e non più l’intero di un individuo) già in Schlegel che dichiara la realtà “un cumulo di frammenti” e lo storico “come un profeta che guarda all’indietro come l’angelo di Klee nella lettura di Benjamin”28. E d’altronde Klee nella conferenza tenuta a Jena nel 1924 “traccia un inequivocabile rapporto tra il Romanticismo tedesco e la propria opera che ne sarebbe per così dire il compimento, quando appunto come nell’Angelus Novus “si tenta di strapparsi a forza dalla terra” e poi , in una fase ulteriore, ci si libra effettivamente “al di sopra di essa sotto l’imperio di forze che prevalgono sulle forze di gravità”.29

Ma cosa ha a che fare questo con gli uomini descritti in questi testi da Perutz, con il suo rapportarsi alla storia? A mio giudizio lo scrittore ebreo praghese, austriaco – e quindi carico di influenze diverse assai significative – assume su di sé un compito arduo che non è soltanto descrivere lo sfacelo della società post-bellica, ma tentare vie nuove in cui raccontare anche in modo sperimentale i balbettamenti di un individuo che ha perso il senso di sé, il vuoto irrapresentabile del tempo che può essere un fluire, ma anche una frattura insanabile, e quindi ossessiva, come avviene appunto nell’opera di Klee o di Van Gogh.30 A volte ci riesce, a volte no, ma il suo muoversi nella storia reale, raccontandola con curiosità, amore e attenzione al nuovo, può rendere giustizia ad un autore che si è forse volutamente fatto per molto tempo dimenticare.

 


1 M. Stürmer, La Germania industriale, in H. Boockmann, H. Schilling, H. Schulze, M. Stürmer, La Germania Dall’antichità alla caduta del muro, Laterza, Bari 1990, p. 290.

2 Cfr. S. Kern, Il tempo e lo spazio, La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 7sgg., che già nell’introduzione cita l’opera di Minkowski, Il tempo vissuto.

3 Ivi, p. 17.

4 “Intorno al 1870 Paul Cezanne dipinse una natura morta dominata da un massiccio orologio nero senza lancette-un simbolo dell’assenza di tempo che egli cercava di creare nella sua pittura”, ivi, p. 31

5 Ibidem

6 Ivi, p. 32.

7 Cfr. C. Magris, L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1984, che illustra in modo esemplare la crisi dell’epoca: “La cultura europea è pervasa, intorno alla fine del secolo, da questo senso dell’ “insalvabilità dell’io”, come aveva affermato Mach […] anche la psicoanalisi contribuirà ad erodere la tradizionale immagine dell’unità della coscienza. Su tutti i fronti “l’io-come scrive Musil –perde il senso che ha avuto finora, di un sovrano che compie atti di governo […] gran parte della letteratura di fine secolo è scossa da questo “terremoto psichico” che, come dirà Manès Sperber, investe l’individuo, il quale si riteneva un compatto continente e scopre d’essere invece un arcipelago”, pp. 6-7.

8 Cfr. L. Perutz, Il marchese di Bolibar, Adelphi, Milano 1987: “Esistono esseri umani che sono l’avanguardia della distruzione. Ovunque essi vadano, portano sventura e rovina”, p. 125, e: “Salignac, invece vestito di tutto punto e pronto per partire, camminava su e giù per la stanza e, sebbene fosse assolutamente illeso, piangeva […] quando ero bambino, mia madre mi raccontava spesso di un uomo che piangeva perché, dovunque andasse nel mondo, era condannato a portare sventura.”, p. 128.

9 Cfr. L. Perutz, Di notte sotto il ponte di pietra, trad. B. Talamo, Post. M. Freschi, E/O, Roma 1988, pp. 48-51.

10 L. Perutz, Herr, erbarme dich meiner!, in Herr… Erzählungen, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1989, pp. 27-28.

11 Ivi, p. 27.

12 Ivi, p. 30.

13 L. Perutz, Dienstag, 12. Oktober 1916, in Herr, erbarme dich meiner, cit., p. 35.

14 In Herr, erbarme dich meiner, cit. (trad. it. e cura B. Talamo, Locanda alla cartuccia, Studio Tesi, Pordenone 1995).

15 L. Perutz, Locanda “Alla cartuccia”, in L. Perutz, La nascita dell’Anticristo, cit., p. 23.

16 Ivi, p. 32.

17 Ivi, p. 6.

18 L. Perutz, Die dritte Kugel, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987.

19 In ital. L. Perutz, Tempo di spettri, Trad. R. Carpinella Guarneri, Adelphi, Milano 1998.

20 Ivi, p. 236.

21 Cfr. Leo Perutz, 1882-1957, Eine Ausstellung der deutschen Bibliothek Frankfurt am Main, Zsolnay, Wien 1989, pp. 87-95.

22 An unsere Leser!, “Arbeiter Zeitung”, Wien, 33 (1921), in Leo Perutz 1882-1957, Eine Ausstellung der deutschen Bibliothek Frankfurt am Main, cit., p. 81.

23 L Perutz, Dalle nove alle nove, Trad. M.Consolati, Postf. Maria Filippi, Reverdito, Trento 1988, pp. 252-253.

24 Ivi, pp. 129-130.

25 Cfr. ad es. R. Lüth, Leo Perutz und das Fin-de-siècle. Zu den literarischen Anfängen des Romanautors Leo Perutz und ihren Wurzeln in der Wiener Literatur um 1900, in “Modern austrian Literatur” 23, 1990, pp. 35-53.

26 F. Rella, Miti e figure del moderno, letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 175 sgg.

27 W. Benjamin, Angelus Novus, Saggi e frammenti, Trad. e intr. R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 76-77.

28 Rella, cit. p. 178-79

29 Ibidem

30 Ivi, pp. 175-184.