Ingeborg Bachmann: Poetica della vista e paesaggi mediterranei

Margherita Cottone

Abstract

In dem Aufsatz wird untersucht, inwieweit Ingeborg Bachmanns „Poetik des Sehens“ die ambivalente Beziehung der Dichterin zur italienischen Landschaft und ihrer Schönheit widerspiegelt. Insbesondere wird das Leitmotiv des Meeres in ihren Werken in Betracht gezogen, das zur zweideutigen Metapher des Lebens so wie der Liebe oder der Kunst wird, auf jeden Fall eines utopischen und zugleich gefährlichen Zustandes, der die Ich-Identität bedroht.

Il rapporto di Ingeborg Bachmann con l’ Italia è oggetto solo da alcuni anni di alcuni studi1 preziosi per conoscere sia il contesto storico-sociale in cui si muoveva la scrittrice austriaca (i suoi rapporti con gli intellettuali italiani, il suo amore per la vita mondana, i viaggi, le numerose case) sia i risvolti letterari2 di questa esperienza italiana all’interno di una poetica in cui il rapporto arte-vita, Io lirico-realtà si traduce in immagini metamorfiche e ambigue grazie a cui gli elementi tipici del paesaggio italiano: sole, cielo, mare, isole, vulcani, pur nella loro primordiale concretezza3, appaiono talvolta come svincolati da determinati luoghi e contesti4. Ogni segno cioè non rimanda più ad una realtà percepita poiché, come afferma nelle Frankfurter Vorlesungen, compito dello scrittore è quello di rendere la lingua «wieder lebendig»5, aprendola così verso nuove possibilità. Il carattere sovversivo dell’attività poetica, di cui Bachmann si fa portavoce, si esprime spesso attraverso una supremazia dello sguardo rivolto sia narcisisticamente all’interno, come in Früher Mittag («Blick nicht zu tief hinein»)6 o anche in Abschied von England, in cui l’Io lirico vede ad occhi chiusi («meine Augen geschlossen») il «paesaggio dell’anima»7, sia all’esterno, dove gli occhi, pur se guardano sempre la riva nel periglioso viaggio della vita (Ausfahrt) o scrutano verso un orizzonte di salvezza (Die gestundete Zeit, Wahr ist wahr, Mein Vogel), sono però esposti al pericolo dell’accecamento causato dalla bellezza (Dunkles zu sagen, Herbstmanöver) e dalla forza della luce, come nell’inno An die Sonne, che si chiude con l’«ineluttabile perdita» («unabwendbaren Verlust») degli «occhi»8. Se il sole e la luce sono causa di accecamento, il mare sembra essere l’elemento in cui lo sguardo abbagliato sprofonda, ma anche verso cui l’Io poetico tende, su cui si avventura, pur se consapevole di dovere affrontare una traversata irta di pericoli e di mostri, oltre la quale però si approda alla luce, quell’ «immerwiederkehrende Sonnenufer»9 che chiude la poesia Ausfahrt, un’immagine di resistenza o speranza dalle valenze vuoi storico-politiche, vuoi esistenziali o ancora poetologiche10. Cercherò nell’ultima parte del mio intervento di esaminare in particolare il valore simbolico e metaforico di questo elemento del paesaggio all’interno di una poetica in cui la bellezza che si offre allo sguardo viene esaltata ed a un tempo stigmatizzata, elusa, negata.

Il motivo della vista, degli occhi come strumenti di percezione e di conoscenza del reale, è dominante nella poetica di Ingeborg Bachmann, come già aveva notato Christa Wolf nel suo saggio dedicato alla poetessa: «Sehend werden, sehend machen: Ein Grundmotiv in den Werken der Ingeborg Bachmann»11. Buona parte della critica ne ha sottolineato l’importanza (pur se tuttora non esiste un saggio specifico sull’argomento), poiché esso è strettamente intrecciato con la sua concezione dell’arte. Come dirà nel famoso saggio Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar (1959), scritto in occasione del premio «Radiodrammi dei ciechi di guerra»: «Und das sollte die Kunst zuwege bringen: daß uns, in diesem Sinne, die Augen aufgehen»12. L’arte, infatti, sia negli scritti teorici sia letterari, si configura via via in termini sempre più chiari in uno strumento di conoscenza che attraverso l’esperienza del dolore13 rende «vedenti» non solo chi scrive, ma anche chi legge, ed ad un tempo è arte che rifiutando ogni compiacimento estetico si fa arte del vedere e del sentire come categorie dell’immaginazione14. Non a caso una delle sue prose più suggestive porta il titolo Was ich in Rom sah und hörte , un testo in cui il suo sguardo va oltre la nota e patinata facciata della città per coglierne gli aspetti più oscuri e violenti, consapevole della forza del passato sul presente15, ma anche della sua misteriosa stratificazione che la rendono «una città utopica»16. «Imparare a vedere», come scriveva Rilke, ma prima di lui Goethe, significa nel caso di Bachmann approdare ad una «nuova percezione» della realtà, come dirà nelle Frankfurter Vorlesungen17, «a formulazioni nuove che colgono rapporti insospettati tra le cose»18. Importante è dunque ‘come’ vedere, non ‘che cosa’. Importante è una nuova percezione del mondo che consenta alla sua poesia non tanto di «zu repräsentieren», bensì «etwas zu präsentieren, für das die Zeit noch nicht gekommen ist»19. La sua è in tal senso una poetica della visione in cui la parola – pur spinta fino al silenzio, come tutta la grande poesia del Novecento – deve assolvere ad una funzione utopica20 in grado di scardinare ciò che definisce «Gaunersprache»21, o anche «schlechte Sprache»22, quel linguaggio della quotidianità fatto di frasi vuote e insignificanti, all’interno di una realtà in cui si è dissolto il rapporto tra poesia e società, in cui la poesia, come scrive in Wozu Gedichte: «se ne sta per conto suo, non ha alcuna funzione e a ragione non importa a nessuno»23. Nel discorso ai ciechi aggiunge:

Ich glaube, daß dem Menschen eine Art des Stolzes erlaubt ist – der Stolz dessen, der in der Dunkelhaft der Welt nicht aufgibt und nicht aufhört, nach dem Rechten zu sehen24.

Sono note le dichiarazioni di Ingeborg Bachmann sul ruolo avuto dall’Italia in questo suo apprendistato alla visione. In un’intervista a Kuno Raeber del 1963 dirà infatti: «In Italien, konnte ich sagen, bin ich froher geworden, hier habe ich gelernt, Gebrauch von meinen Augen zu machen, habe schauen gelernt»25.

«…war ich zum Schauen erwacht», scrive in Das erstgeborene Land, una delle sue poesie più famose legate all’esperienza italiana:

Und als ich mich selber trank
und mein erstgeborenes Land
die Erdbeben wiegten,
war ich zum Schauen erwacht26.

E non lo fa seguendo i cliché dei viaggiatori ottocenteschi dichiarando che:

man die alten Bilder, wie sie etwa Mörike verwendet hat oder Goethe, nicht mehr verwenden kann, nicht mehr verwenden kann, weil sie sich in unserem Mund unwahr ausnehmen würden. Wir müssen wahre Sätze finden, die unserer eigenen Bewußtseinslage und dieser veränderten Welt entsprechen27.

Contraddittorio è il suo rapporto con questo paese dove abiterà a lungo e morì , come del resto quello con l’Austria, di cui riesce a narrare solo da lontano, vale a dire da Roma, una città, scrive ancora nel 1957, «wo man ein geistiges Lebensgefühl haben kann28, una città che diventerà per lei una «selbstverständliche Stadt»29, ma comunque «fremd»30, come tutto ciò che le è troppo vicino. Distanza è infatti l’ottica strabica che garantisce la vera percezione della realtà, come il lavoro della memoria che focalizza meglio ciò che è lontano.

La bellezza del paesaggio italiano è ciò che seduce figure di intellettuali e di artisti in «fuga verso il sud». Nella poesia Herbstmanöver , scritta nel 1952, Bachmann dirà dell’impossibilità di questa fuga: «Und der Fluchtweg nach Süden kommt uns nicht»31, ma anche del pericolo che affronta chi si confronta con la bellezza: «wo ich verwundbar bin, durch Schönheit, im Aug»32. Spinta anche dall’amico e musicista Hans Werner Henze33, Bachmann, come fa dire al protagonista di Das dreißigste Jahr, in Italia trovò dapprima «Schutz in der Schönheit […], im Anschauen»34. In una lettera del 4 ottobre 1956 ad Henze scriverà in italiano, ( lingua che riusciva a parlare con una certa scioltezza, non priva di errori):

se si potrebbe per sempre entrare in un regno di bellezza, di suoni, di parole! Vado pazza per la bellezza. Da quando sono stata a Napoli, i miei orechi sono cambiati35.

La visione della bellezza rappresenta quella dimensione utopica che farà scrivere alla protagonista di Malina:

Ein Tag wird kommen, an dem die Menschen schwarzgoldene Augen haben, sie werden die Schönheit sehen, sie werden vom Schmutz befreit sein und von jeder Last, sie werden sich in die Lüfte heben, sie werden unter die Wasser gehen, sie werden ihre Schwielen und ihre Nöte vergessen36.

Nel ricchissimo carteggio con Henze, quest’ultimo le decanterà in termini entusiasti la bellezza del clima e del paesaggio italiano, e isolano in particolare, cercando sin dal primo momento della loro conoscenza di convincere l’amica a trasferirsi ad Ischia (dove effettivamente i due vissero per qualche mese nell’estate del 1953) abbandonando quel paese di «assassini, neofascisti, neo-neurotici»37, scriverà Henze, da cui sono fuggiti. Pur lasciandosi coinvolgere dalla sensualità del paese, la poetessa-filosofa imparerà presto a difendersene. In una lettera all’amico da Venezia del 16 ottobre 1956, anno in cui condividono un appartamento a Napoli, gli annuncia che ha deciso di ritornare a Klagenfurt, dai suoi genitori perché ha bisogno di «retirarsi in angolo qualsiasi. E l’Italia d’apertutto invita sempre a aprire gli occhi, e non voglio vedere altro che la mia carta, la mia macchina e un muro davanti»38.

Nelle memorie del musicista affiora l’immagine di un’esperienza felice39 i cui risvolti drammatici si svilupperanno nel tempo, dovuti al complesso rapporto di affinità e distanza tra i due artisti che comunque resteranno sempre molto legati. Il radiodramma Zikaden e i Lieder von einer Insel del 1954 rappresentano le testimonianze più tangibili di questa esperienza di cui Bachmann percepirà anche gli elementi oscuri e pericolosi, come dimostra la critica implicita nel radiodramma Zikaden al gruppo di «naufraghi» che come le cicale soggiacciono morendo al piacere ingannatore del canto, la torre d’avorio dell’arte, chiudendosi irresponsabilmente al mondo40. In esso il mare è l’elemento liquido che separa il mondo dall’isola, che ben lungi dall’essere la mitica Orplid verso cui fugge il prigioniero, è un luogo che rende «disumani».

Bachmann coglie con lucidità e sofferenza il pericolo di obnubilamento e perdita del sé che la sensualità primordiale del sud causa sia su un piano esistenziale sia storico-politico. Se la forza ispiratrice dell’eros, che questa realtà mette in moto, è un «Credo», come scriverà l’amica Christine Koschel, a cui resta sempre «aggrappata»41, ne proverà anche la capacità distruttiva. Ciò si tradurrà sul piano poetologico anche in immagini inquietanti e aggressive del paesaggio attraverso cui la poetessa rovescia i topoi della Naturlyrik tedesca e che, come ha evidenziato Miglio, rappresentano i segni di un’Italia «ctonia» in cui si rifrangono le «zone infere del sé»42. L’elemento vitalistico-dionisiaco e arcaico del paesaggio italiano, l’ «erstgeborene Land», come recita la poesia omonima, o «Ursprungland» (come scrive nel suo commento a In Apulien)43, è rappresentato simbolicamente nei gorghi e nei morsi del dolore, che sono però indispensabili per la ‘risalita’, perché solo l’esperienza del buio e della sofferenza diventa condizione di creazione e di capacità di visione.

Se infatti la bellezza è oggetto privilegiato della visione, dello sguardo estetico, essa, quando è fine a se stessa, priva, come dirà la poetessa nelle Frankfurter Vorlesungen di uno «scatto morale, conoscitivo»44, diventa espressione di un falso rapporto con la realtà che la violenza dei tempi non consente, un tema che caratterizza soprattutto la letteratura del Novecento dopo il 1945.

Nella contemplazione dello sguardo meduseo della bellezza e dell’arte si annida infatti il pericolo dell’impietramento e della morte. Tra le poesie amate dalla Bachmann vi è non a caso il Tristan di Platen, i cui famosi versi: «Wer die Schönheit angeschaut mit Augen, /Ist dem Tod schon anheimgegeben» appartengono di sicuro ad una di quelle citazioni, che, come dichiara in un’intervista, per lei non sono «Zitate», ma «das Leben»45.

Nella poesia Dunkles zu sagen, in cui affiora chiaramente il sofferto dialogo poetico e amoroso con Paul Celan, negli occhi di Euridice si annida la pericolosa seduzione della bellezza, quell’amore che fa cantare al poeta la morte. Solo quando i suoi occhi sono «chiusi per sempre» («dein für immer geschlossenes Auge»)46, è consentito ad Orfeo cantare la vita. È un tema che allude anche al complesso rapporto che la poetessa ebbe con l’estetismo: il pericolo di accecamento che costituisce la bellezza come valore in sé, contrapposta a una poetica in cui compito dell’arte è che «uns die Augen aufgehen», attraverso la rappresentazione del dolore rendere gli uomini «vedenti».

La bellezza del mare mediterraneo di cui Bachmann sogna sin da bambina47 è nei suoi testi un leitmotiv insieme ad altri immagini di natura come il sole, la luce, il cielo, il vento, diventando ambigua e complessa metafora ora dell’esistenza, ora dell’amore, ora dell’arte, comunque di una dimensione utopica ed a un tempo pericolosa che minaccia l’identità dell’io.

Tale dimensione utopica del mare si percepisce già nello scritto Auch ich habe in Arkadien gelebt, in cui il mare è una meta sempre desiderata e mai raggiunta. Pur se l’io narrante dopo il congedo dalla sua terra natale percorre «eine große herrliche Straße, auf der man bis ans Meer fahren konnte», il mare, si dice, è «weit», oppure non si ha il tempo di raggiungerlo, perché bisogna portare a termini «immer neue Aufgaben». Riesce solo ad evocare «das Bild des unbekannten Meeres»48.

Si tratta di un percorso «verticale»49 verso il basso, una «caduta», come si dice già nella poesia giovanile Aufblickend che trascina l’io lirico verso il mare, verso il sud:

Mein Weg aber ist ohne Erbarmen
Sein Fall drückt mich zum Meer
Großes, herrliches Meer50.

Anche nell’immagine presente nella poesia Große Landschaft bei Wien, in cui l’io lirico si dichiara «der Schönheit verfallen», vale a dire, come è stato tradotto, «votato alla bellezza» o «in balia della bellezza» di un paesaggio ‘altro’ («auf dem Platz im Mittagslicht» W, 1, 60), diverso da quello desolato descritto nella prima parte della poesia, c’è implicito un’idea di caduta che la traduzione italiana non rende. D’altra parte il tema della caduta caratterizza l’andamento della poesia che si chiude proprio con questa immagine51, pur se si tratta di una caduta consapevole perché investe la vista e l’udito («….und auf den Stufen/ der Schwermut fielen und tiefer fielen,/ mit dem scharfen Gehör für den Fall», W, 1, 61). Fallen, verfallen, zufallen, zugrunde gehen, untergehen sono immagini molto frequenti che alludono sia alla sua situazione esistenziale, a quella «ferita» che segna dall’infanzia la sua vita, ma a anche a questo movimento dal Nord al Sud, verso quel mare lontano che appare un antidoto alla «Schwermut» e sino ad un certo momento sogno e salvezza. «Zugrund – das heißst zum Meer», dirà ancora in Böhmen liegt am Meer, del 1964, un testo in cui, come vedremo dopo, il mare, si offre come immagine utopica e di vita.

Il mare, nei Lieder von einer Insel che scrive nel 1956 per Henze52, circonda un luogo dove luci e ombre convivono, dove l’aria luminosa è impregnata della «polvere» del vulcano spento, ma la cui lava scorre «sotto la terra», infuocando gli amanti. Ma al mare si assegna un ruolo purificatore dei peccati commessi da coloro che vengono dal paese degli «Henker». Bagnare «i piedi freschi d’unguento» sulla riva del mare rappresenta una sorta di rito sacrificale53 che si reitererà nella quinta parte della poesia quando si invita a buttare nell’acqua oggetti atti a propiziarne il ritorno:

Wenn einer fortgeht, muß er den Hut
mit den Muscheln, die er sommerüber
gesammelt hat, ins Meer werfen
und fahren mit webendem Haar,
er muß den Tisch, den er seiner Liebe
deckte, ins Meer stürzen 54.

Nel Hörspiel Geschäft mit Träumen il mare in cui affonda Anna è solo visto nel sogno di Laurenz. Se esso da una parte è pieno di pericoli («die schwarzen Wellen zermalen schon das Heck, die Planken brechen»55), dall’altra raffigura una dimensione di libertà e di bellezza che comunque prelude alla morte: «Ich liebe die wundervollen Lieder der Matrosen, ich liebe das Meer und die Ferne, die Unendlichkeit und die Gefahr. […] Aber ich liebe den Tod»56, dirà Anna che anticipa in nuce la figura di Undine, creatura acquatica simbolo dell’arte, come afferma la stessa Bachmann57 che in questa figura marina si identifica a diversi livelli. Il gioco di rimandi che esiste tra Ondine, vale a dire il nome della barca che, come gli scrive Henze in una lettera del 195358 la porterà dalla costa ad Ischia, il personaggio di Anna che afferma di amare «Kleider aus silbernen Fischschuppen und Hausbänder aus Tang»59, la voce narrante di Undine geht e la stessa poetessa trova conferma anche in un episodio abbastanza singolare: Bachmann si presenterà infatti alla prima dell’opera Undine di Henze vestita come una sirena60. E in sirena si trasformerà la protagonista che il sognatore Laurenz, dimentico di tutto, seguirà in fondo al mare. Come le cicale essi però perdono la loro umanità per seguire un sogno di amore assoluto che il canto delle sirene sancisce per sempre:

Wir schlafen und wissen nicht mehr
Von verflogenen Stunden am Strand,
umschlungen, wie Muscheln im Meer,
von Perlen, von Traum und von Sand61.

Ma è solo un sogno, che non si attuerà mai nella vita reale, dove i due continueranno a vivere la loro triste esistenza. Il mare è in questo caso il luogo in cui si realizza il sogno utopico dell’amore assoluto, entro cui si sprofonda, una metafora che incontriamo anche nella poesia Lieder auf der Flucht del 1956 dove tutto il corpo dell’amato, secondo il modello biblico, diventa un paesaggio marino. Se gli «occhi» dell’amato sono «Finestre/ su un paese» in cui l’io lirico si trova immersa nella luce, il «petto, un mare che trascina a fondo» e «l’anca è un attracco» per l’io-nave esposta alle fatiche del viaggio:

Innen sind deine Augen Fenster
auf ein Land, in dem ich in Klarheit stehe
Innen ist deine Brust ein Meer,
das mich auf den Grund zieht.
Innen ist deine Hüfte ein Landungssteg
für meine Schiffe, die heimkommen
von zu großen Fahrten62.

In Geschäft mit Träumen il mare è però anche il luogo che addormenta e disumanizza gli amanti, come accadde alle cicale, un tempo uomini. Solo più tardi con Undine l’elemento acquatico, di cui essa è personificazione, assurgendo a metafora dell’arte stessa, consente all’io narrante pur nella sua dolorosa solitudine di andare a fondo, rigenerarsi e risalire, di morire e rinascere continuamente, movimento che è proprio di ogni processo creativo:

wenn ich eines Tages freikam aus der Liebe, musste ich zurück ins Wasser gehen, in dieses Element, in dem niemand sich ein Nest baut, sich ein Dach aufzieht über Balken, sich bedeckt mit einer Plane. Nirgendwo sein, nirgendwo bleiben. Tauchen, ruhen, sich ohne Aufwand von Kraft bewegen – und eines Tages sich besinnen, wieder auftauchen, durch eine Lichtung gehen, ihn sehen und »Hans« sagen. Mit dem Anfang beginnen63.

Nella poesia Lieder auf der Flucht,64 pubblicata 1956 e probabilmente nata da un’esperienza realmente vissuta65, in una Napoli assediata dal gelo in cui l’io giace «solo» e «pieno di ferite», ma vigile («es hat mir der Schnee/ noch nicht die Augen verbunden»66), la speranza irrealizzabile della fuga sembra offerta solo dai «flutti» che potrebbero sollevarlo verso «dem nächsten Ziel». Se la forza incandescente che viene dalle profondità consentirà all’io di entrare nelle stanze segrete dell’amore (VIII), da questo amore la terra sarà potentemente scossa fino a sprofondare nel mare, da cui poi però risalirà verso il cielo («untergegangen im Meer/ und aufgegangen im Himmel/die Erde). Sono immagini cristologiche di morte e rinascita in cui il mare sembra assolvere ad una funzione catartica. Nella XIII poesia il tu, (sia esso un essere superiore, o l’amante 67, o ancora il suo alter ego), cui si rivolge l’io lirico dopo il fallimento dell’amore, è infatti invitato a spezzare il ghiaccio dall’occhio e trovare aiuto nel mare, che è qui metafora dell’arte:

Das Eiskorn lös vom zugefrornen Aug,
brich mit den Blicken ein,
die blauen Gründe such
schwimm, schau und tauch. (XIII)

Infatti soltanto nell’elemento fluido del mare-arte, lo sguardo del poeta sembra trovare salvezza, come accade nei versi seguenti in cui l’io lirico pur se insicuro della propria identità («Ich bin es nicht./ Ich bin’s», XIII ) assiste al miracolo del canto che opera il grande «disgelo»: «l’acqua canta» e sprigiona «Silben im Oleander/ Wort im Akaziengrün/ Kaskaden aus der Wand», XIV). Se nel finale si affermerà che non c’è «trionfo» per noi creature, anche della parola poetica, del canto che «si leverà su di noi» («wird uns übersteigen», XV) si dirà che è solo un canto effimero («das Lied überm Staub»), affermandone così la sua caducità. L’esperienza italiana mostra le sue crepe e la sua illusoria dimensione di salvezza. Il conflitto arte-vita non trova soluzione se non in immagini di morte. Ma il sogno utopico continua attraverso un percorso che va oltre il mare per ritrovarlo altrove.

Già in Die Zikaden il narratore è l’unico che nel finale invita i «naufraghi» a non «dimenticare» ciò che si è lasciato, a restare dunque uomini: «Such nicht zu vergessen! Erinnre dich! Und der dürre Gesang deiner Sehnsucht wird Fleisch«68. Ciò che salva, aggiungerà, è «una strada» che « läuft vom Himmel übers Meer zur Erde zurück»69, vale a dire il mondo da cui si è fuggiti. Anche nello scritto Auch ich habe in Arkadien gelebt, l’io narrante scrive della speranza del ritorno:

und ich konnte euch sagen, daß es mir gelänge, bis ans Meer zu kommen und allen Straßen und allen Wassern der Welt meinen Namen einzuschreiben, wenn mir die Hoffnung bliebe, daß ich am Ende der Tage heimkehren könnte70.

A questo ritorno allude la poesia Böhmen liegt am Meer. La stessa poetessa la definisce «la poesia di un ritorno, non di un ritorno geografico, ma di un «ritorno spirituale»71. La poesia, dalle chiare influenze shakespeariane, nasce infatti dopo i due viaggi a Praga intrapresi nel 1964 con Adolf Opel, un giovane scrittore viennese. Ma il mare che circonda la Boemia resta il centro della sua utopia72. Nel testo dalle complesse stratificazioni storico-linguistiche73, il mare come è stato ampiamente analizzato, è infatti il «territorio della parola riscattata capace di prefigurare il nuovo mondo»74. Rinunciando al proprio sé, nel tentativo di ritrovarsi nell’altro («Bin ich’s nicht, ist es einer, der ist so gut wie ich»75), l’Io lirico sprofonda nel mare di un utopica terra di Boemia. Nella contrapposizione «Abgrund»- «Grund», «Meer» – «Land» al tema della caduta nel mare: «Ich will nicht mehr für mich, Ich will zugrunde gehen/Zugrund-das heißt zum Meer», fa da contraltare il tema della risalita e del risveglio: «Zugrund gerichtet, wach ich ruhig auf./ Von Grund auf weiß ich jetzt, und ich bin unverloren«. L’aggettivo «unverloren» («non perduta») tradisce però la precarietà della salvezza dell’io in un mare non rassicurante, «strittig», «controverso», ma che comunque è ciò che dà in dono («begabt») all’Io la possibilità di vedere lontano, verso la terra d’elezione, un paesaggio utopico che racchiude in sé la sua vecchia terra e la nuova, forse tutte le terre del mondo conosciuto, poiché afferma la Bachmann «siamo tutti boemi. E noi speriamo in questo mare e in questa terra»76.


1 Sulla ricezione della sua opera in Italia fino agli anni Novanta cfr. Maria Chiara Mocali, Die Bachmann-Rezeption in der italienischen Literaturwissenschaft und Literatur, in Ingeborg Bachmann-Neue Beiträge zu ihrem Werk, Internationales Symposium Münster 1991, hrsg. von Dirk Göttsche, Hubert Ohl, Würzurg 1993, pp. 25-36.

2 Cfr. in proposito Stefanie Golisch, Fremdheit als Herausforderung: Ingeborg Bachmann in Italien – Estraneità come sfida: Ingeborg Bachmann in Italia. Studi Italo-Tedeschi / Deutsch-Italienische Studien, Merano 1998; Eckart Oehlenschläger, »…zum Schauen erwacht«. Über Ingeborg Bachmanns Wahrnehmung Italiens, in Italien in Deutschland–Deutschland in Italien: die deutsch-italienischen Wechselbeziehungen in der Belletristik des 20. Jahrhunderts, hrsg. von Anna Comi, Alexandra Pontzen, Berlin 1999. Fondamentale il lavoro di Ariane Huml, Silben im Oleander, Wort im Akaziengrün: zum literarischen Italienbild Ingeborg Bachmanns, Göttingen 1999; vedi inoltre Bachmann, eine Europäerin in Rom, a cura di Barbara Agnese e Robert Pichl, in “Cultura tedesca”, n. 25, 2004; Camilla Miglio, La terra del morso: l’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann, Macerata 2012; Ingeborg Bachmann in Italien: Re-Inszenierungen, a cura di Arturo Larcati e Isolde Schiffermüller, in “Cultura tedesca”, n. 45, 2014.

3 Cfr. Giuseppe Dolei, La parola nel «regno del prefetto». Sulla lirica di Ingeborg Bachmann, in “Studi tedeschi”, XXIX, 1-3, 1986, p. 324.

4 Cfr. Arno Rußegger, «Abschied von England». Il non detto. Tentativo di una lettura costruttivista della poesia di Ingeborg Bachmann , in Luigi Reitani (a cura), La lirica di Ingeborg Bachmann, Bologna 1996, p. 55.

5Ingeborg Bachmann, Frankfurter Vorlesungen, in Werke, hrsg. von Christine Koschel, Inge von Weidenbaum, Clemens Münster, München Zürich 1993, Vol. 4, p. 192. (Questa edizione sarà da questo momento citata con la sigla W, seguito dal numero del volume e della pagina)

6 Ivi, p. 44.

7 Ivi, p. 30.

8 W, 1, p. 137, cfr. Maria Chiara Mocali, «Portare la pietra a fiorire, ovvero ‘della poesia’. Linguaggio e corpo nella lirica di Ingeborg Bachmann», in Transizioni, Saggi di letteratura tedesca del Novecento (Lasker-Schüler, Aichinger, Bachmann, Haushofer, Mayröcker), hrsg. von Ute Treder, Firenze 1997, pp. 120-183.

9 Ivi, p. 29.

10Cfr. Hans Höller, Ingeborg Bachmann. Das Werk. Von den frühesten Gedichten bis zum «Todesarten» Zyklus, Frankfurt a. M. 1987, p. 20; Sigrid Weigel, Ingeborg Bachmann. Hinterlassenschaften unter Wahrung des Briefgeheimnisses, Wien 1999, p. 243; Anton Reininger, Un viaggio per Utopia? Ausfahrt (1952), in Luigi Reitani, cit., pp. 31-41; Christoph Michel, Ausfahrt, in Interpretationen. Werke von Ingeborg Bachmann, hrsg. von Mathias Meyer, Stuttgart 2002, pp. 9-26.

11 Christa Wolf, Die zumutbare Wahrheit. Prosa der Ingeborg Bachmann, in Id. Lesen und Schreiben. Neue Sammlung, Essay, Aufsätze, Reden, Darmstadt 1980, p. 174.

12 W, 4, p. 275.

13 Il tema del dolore degli uomini e di quello personale è una «Problemkonstante» (W, IV, p. 190) della sua poetica e della sua opera dominata da immagini di abbandono, di desolazione, di violenza e di morte, che costituiscono una complessa topografia dell’anima dalle coordinate tutt’altro che univoche e definibili. P. Beicken parlerà a ragione di «verletzte Subiektivität» (Id, Ingeborg Bachmann, München 1988). In una famosa intervista del 1971 pubblicata nel volume Wir müssen wahre Sätze finden. (Gespräche und Interviews, hrsg. von Christine Koschel und Inge von Weidenbaum, München 1991) alla domanda sul fatto che il tema di fondo della sua opera sia il dolore di vivere la vita come «mostruosa offesa», di fronte alla quale c’è solo una salvezza: la morte, risponde ricordando quel primo dolore che ha colpito la sua infanzia: «Es hat einen bestimmten Moment gegeben, der hat meine Kindheit zerstört. Der Einmarsch von Hitlers Truppen in Klagenfurt. Es war etwas so Entsetzliches, das mit diesem Tag meine Erinnerung anfängt: durch einen zu frühen Schmerz, wie ich ihn in dieser Stärke vielleicht später überhaupt nie mehr hatte.» (p. 111). Nelle Frankfurter Vorlesungen dirà subito che «per lo scrittore esistono soprattutto […] problemi devastanti, terribili nella loro semplicità» («zerstörerische, furchtbare Fragen» W, 4, p. 184) e più volte parlerà dell’esperienza del dolore che muove la vera poesia come quella di Nelly Sachs.

14 Cfr. Luigi Reitani, Il canto sulla polvere, in Ingeborg Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore, Milano 2002, pp. 165-195.

15 Cfr. Hans Höller, La follia dell’assoluto, Vita di Ingeborg Bachmann, trad. it. di Silvia Abesano e Cinzia Cappelli, Parma 2010, pp. 102 ss; Das Rom der Ingeborg Bachmann, hrsg. von Arturo Larcati, Irene Fluß, fotografie di Angelika Fischer, Berlin 2015.

16 Bachmann, Wir müssenn wahre Sätze finden, cit., p. 73. Nell’intervista a Bernstoff del 1956 spiega cosa intende per città utopica: «Roma non solo agisce attraverso l’esistente. Agisce anche attraverso le sue possibilità che consistono nel suo essere stratificata» (Ibidem). Vedi pure Ferragosto, W, 4, p. 337.

17 W, 4, p. 195.

18 Reitani, Il canto sulla polvere, cit., p. 175.

19 W, 4, p. 196.

20 Cfr. Kurt Bartsch, Ingeborg Bachmann, Stuttgart 1988.

21 W, 2, p. 108.

22 W, 4, p. 270.

23 W, 4, pp. 303-304 (trad. it. di L. Reitani, La lirica di I. Bachmann, cit. p. 17).

24 Ivi, p. 277.

25 Bachmann, Wir müssen wahre Sätze finden, cit., p 40.

26 W, 1, p. 120.

27 Bachmann, Wir müssen wahre Sätze finden, cit., p. 19.

28 Ivi, p. 23.

29 Ivi, p. 65.

30 Bachmann, Wir müssen wahre Sätze finden, cit., p. 19.

31 W, 1, p. 56.

32 Ibidem

33 Henze resterà colpito dalla lettura di questa poesia durante la riunione del gruppo 47 a Burg Berlepsch nel 1952, e per questo comincerà a scriverle. Cfr. lettera del 1 Novembre 1952, in Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze, Briefe einer Freundschaft, hrsg. von Hans Höller, introduzione di Hans Werner Henze, München Zürich 2004, p. 11.

34 W, Bd 2, p. 118.

35 Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze, Briefe einer Freundschaft, cit., p. 339.

36 W, 3, p. 121.

37 Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze, Briefe einer Freundschaft , cit., p. 209.

38 Ivi, p. 328. (in italiano)

39 Sul diverso modo di vivere questa esperienza cfr. Giusi Zanasi, Tra Ondina e Giovanna D’Arco: Ingeborg Bachmann nella memoria di Henze, in “AION – Annali dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale”, Sezione Germanica, n.s., V, 1995, pp. 107-136.

40 Cfr. la critica all’opera musicata da Henze e la reazione di Bachmann, citate nelle Anmerkungen zu den Briefen di Hans Höller, in Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze, Briefe einer Freundschaft , cit., pp. 450-451.

41 Christine Koschel, «Malina» ist eine einzige Anspielung auf Gedichte, in Bernard Böschenstein, Sigrid Weigel (Hrsg.), Ingeborg Bachmann und Paul Celan. Poetische Korrespondenzen, Frankfurt a. M 1997, p. 21.

43 Ingeborg Bachmann, Zur Entstehung des Titels „In Apulien«, in W, 4, p. 305. Secondo Dolei, il paesaggio dimostra una capacità di sopravvivere alla morte omologa a quella dell’esistenza poetica. Cfr. Dolei, La parola nel «regno del prefetto, cit., pp. 326 ss.

44 W, 4, p. 192 «ein moralischer, erkenntnishafter Ruck».

45 Bachmann, Wir müssen wahre Sätze finden, cit., p. 69. Nell’epistolario con Henze, questi, raccontando di una sua passione amorosa per un famoso cantante napoletano, Fausto Cigliano, le scriverà in italiano «ora posso pure comprendere perché ti piace questa poesia». (Briefe, it., p. 301).

46 W, 1, p. 32.

47 Cfr. Biografisches, W, 4, p. 301.

48 W, 2, pp. 38-39.

49 Su questo tema presente nelle Frankfurter Vorlesungen, vedi Huml, cit.

50 W,1, p. 625.

51 Cfr. Rita Svandrlik, Ingeborg Bachmann. I sentieri della scrittura, Roma 2001, p. 59.

52 Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze, Briefe einer Freundschaft, cit., p. 14. Per alcune di queste, dieci anni dopo, Henze compose una Chorphantasie.

53Cfr. Huml, cit., p. 113.

54 W, 1, p.123.

55 W, 1, p. 209.

56 Ibidem.

57 Bachmann, Wir müssen wahre Sätze finden, cit., p. 46.

58 Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze, Briefe einer Freundschaft , cit., p. 21

59 W, 1, p. 206.

60 Nella sua autobiografia Henze racconta che alla prima di Undine a Londra il 27 ottobre 1958 Bachmann si era trasformata in «ein Meermädchen»: « Gewand und Haartracht waren mit Schmuck und Meertang durchflochten«, Hans Werner Henze, Reiselieder mit böhmischen Quinten. Autobiographische Mitteilungen 1926 – 1995, Frankfurt a. M. 1996, p. 191.

61 W, 1, p. 212.

62 W, 1, p. 142.

63 W, 2, p. 254.

64 Cfr. la bella interpretazione di Giuseppe Dolei, Tra la fuga e l’ultimo rifugio. Lieder auf der Flucht (1956), in Luigi Reitani (a cura), La lirica di Ingeborg Bachmann, cit., pp. 213 -237.

65 Andreas Hapkemeyer ci informa di una furiosa nevicata a Napoli nell’inverno del 1953-54, in Id, Ingeborg Bachmann. Entwicklungslinien im Werk und Leben, München- Zürich 1990, pp. 69-75.

66 W, 2, pp. 139 e ss. Per le altre citazioni si inserirà il numero delle diverse poesie nel testo.

67 Cfr. Dolei, Tra la fuga e l’ultimo rifugio, cit., pp. 234-235.

68 W, 1, p. 267.

69 Ibidem.

70 W, 2, pp. 39-40.

71Statement zu Gerda Hallers Fernsehfilm «Ingeborg Bachmann in ihrem erstgeborenen Land» (1973), Österreichische Nationalbibliothek, Wien, Nachlaß, n. 2349: «das Gedicht meiner Heimkehr, nicht einer geographischen Heimkehr, sondern einer geistigen Heimkehr«, cit. in Ingeborg Bachmann, Letzte, unveröffentlichte Gedichte. Edition und Kommentar von Hans Höller, Frankfurt am Main 1998, p. 124.

72 Christine Ivanović usa il termine «eterotopia», impiegato dal filosofo francese Michel Foucault, per indicare quei luoghi reali, riscontrabili nella cultura di ogni tempo, strutturati come spazi definiti, ma «assolutamente differenti» da tutti gli altri spazi sociali, dove questi ultimi vengono «al contempo rappresentati, contestati, rovesciati». Cfr. Christine Ivanović, Böhmen liegt am Meer, in Mayer (Hrsg.), Interpretationen, cit., pp. 108-121.

73 Vedi höller, La follia dell’assoluto, cit., pp. 139-145.

74 Fabrizio Cambi, La navigazione dell’Io fra naufragio e approdo alla parola. Böhmen liegt am Meer (1964-66), in Reitani, (a cura), La lirica di Ingeborg Bachmann, cit., p. 243.

75 W, 1, p. 167.

76 Statement zu Gerda Hallers Fernsehfilm «Ingeborg Bachmann in ihrem erstgeborenen Land» (1973), cit.