Il mare e la terraferma nella lirica di Ingeborg Bachmann

Giuseppe Dolei

 Abstract

Die Mittelmeerbilder Ingeborg Bachmanns sind Teil einer geschichtlichen und existentiellen Dialektik zwischen Meer und Festland, Inseln und Seefahrern. Dabei vermeidet die Dichterin eine oberflächliche Darstellung des Südens zu vermitteln und zeigt ein tiefes kulturelles Bewußtsein. Die Natur des Mittelmeers kann sich auch als kalt, trocken, vulkanisch, zerstörerisch erweisen, es bleibt jedoch die utopische Geste des Abfahrens, des Weitersegelns, denn trotz allem liegt Böhmen noch am Meer.

Non è facile scoprire un’esperienza univoca del paesaggio marino mediterraneo nella lirica di Ingeborg Bachmann, e nemmeno tracciare una sua linea evolutiva, non essendo la visione del mare oggettiva, ma una funzione dello stato d’animo del soggetto che di volta in volta la rievoca e la trasforma. Assistiamo così, nelle visioni del mare, a oscillazioni continue, perfino a nette contrapposizioni.

La lirica giovanile parte da rappresentazioni dotate di senso totalmente negativo. I colori sono quelli di un medium, peggio che pericoloso, foriero di morte generalizzata. Dopo un triplice rombo del tuono, la lirica Vision ci presenta un mare popolato di navi già destinate ad affondare, distrutte in tutti gli strumenti della navigazione, dall’albero al corpo centrale, sicché il loro avvicinarsi è muto. E il loro movimento è del tutto irreale. Non lasciano scie al loro passaggio, non trovano un vento che li spinga in qualche direzione, rendono inutile la funzione del faro. Possono toccare la riva? Anche questa evenienza non ha nulla di rallegrante, giacché, come il mare è disseminato di pesci morti che galleggiano ai lati della nave, così nella riva gli uomini sono ridotti a una moltitudine di cadaveri.

Un andamento più articolato prende la visione del mare nella poesia che apre la raccolta Die gestundete Zeit o Il tempo dato a ore (1953), e che porta il titolo di Ausfahrt (Salpare). Qui il mare viene visto come fonte di potenziale pericolo, al quale il soggetto lirico non è riuscito a sfuggire, come suggerisce l’immagine della mano che avrebbe dovuto trattenersi affondando le unghie nella sabbia o dei capelli che avrebbero dovuto essere legati a una roccia della terraferma. Non manca la rievocazione dei mostri marini, che nell’acqua scandiscono lo scorrere dei giorni tagliando le onde con una scia di sangue, né la minacciosa presenza della notte che oscura la nave quando della costa non si vede più nulla. Ma ai pericoli della natura viene contrapposta l’attività dell’uomo, la vita dei marinai che la poetessa fa propria. Essi alternano con ritmo religioso le fatiche del giorno (cucire le reti, riparare le pareti della nave, custodire il pescato, ecc.) al riposo della notte. Si crea così un contesto protettivo, al quale il soggetto prende volentieri parte, lavorando ogni giorno fino a crollare la sera per la stanchezza. All’alba ritornano le forze per dimenticare le insidie delle onde notturne e guardare incontro a una nuova riva inondata di sole.

Nel paese primogenito (Das erstgeborene Land) la cifra del mare è priva di qualsiasi nostalgia o di gioia per la scoperta di un elemento nuovo per un continentale. Esso dispiega la sua negativa forza e inghiotte «sino alla cintola la città e il suo castello». Il mare Ionio, ricco di sale, lascia sopravvivere solo alberi scheletriti. L’energia di questo paesaggio mediterraneo è attribuita alle forze della natura contro le quali esso ha dovuto lottare per sopravvivere: i terremoti e animali velenosi come la vipera. L’ancora di salvezza, quella che riscatta dalla morte la pietra del mediterraneo e trasmette la sua vita alla visitatrice, è la luce, necessaria allo sguardo poetico: «E quando io stessa mi immersi/e il mio paese primogenito/fu cullato dai terremoti,/ mi risvegliai alla capacità di guardare»:

Und als ich mich selber trank
und mein erstgeborenes Land
die Erdbeben wiegten,
war ich zum Schauen erwacht. (Werke, p. 120)

 Anche nei Lieder von einer Insel (Canti da un’isola) il mare non ha il ruolo preponderante che ci aspetteremmo dal titolo. Gli tocca solo un posto nella dialettica tra mare e terraferma, con immagini di supporto alla storia d’amore che vi è tratteggiata come su un arazzo: «Quando tu risorgi/quando io risorgo,/non c’è nave sul mare»:

Wenn du auferstehst,
wenn ich auferstehe,
liegt kein Boot auf dem Meer. (Werke, p. 121).

E c’è quasi un senso di liberazione dal mare, quando «le navi si staccano dalla terraferma» e descrivono la rotta col peso dei due passeggeri a fare da albero maestro, con la conseguenza: «Ora sono vuoti i posti per l’esecuzione, /essi ci cercano e non ci trovano»:

Nun sind die Richtstätten leer,
sie suchen und finden uns nicht (Werke, ibidem).

Lo stesso avviene per la trasposizione di una simbolica vendemmia sulla spiaggia, dove «le botti rotolano contro le onde domenicali», mentre i due innamorati arrivano a piedi nudi, lavano l’uva e la pigiano per trasformarla in vino. Il mare, nominato spesso e mai definito, decide però il rituale delle feste religiose tributate ai vari santi: le processioni si allontanano su vecchie barche; razzi illuminano la notte seguendo un costume antichissimo, che trasmette anche ai pesci l’atmosfera elettrizzata della festa.

È anche il mare a determinare le condizioni di vita dell’isola: scarsa vegetazione, dura esistenza per i magri gatti, impazzare del vento e gioia del monte, in compagna solitaria della sua stella. In definitiva il mare si caratterizza più per contrasto con la terraferma che per i suoi attributi specifici: non un solo aggettivo lo contraddistingue propriamente.

Resta la sua funzione primaria di limes tra l’acqua e la terra, tra l’acqua e il vulcano, dentro il quale cova il fuoco destinato a purificare col suo flusso gli uomini e il loro abitato. Appunto perché segna un confine archetipico, il mare non può essere abbandonato come si abbandona un luogo qualsiasi. È necessario ubbidire a un rituale che solo consente il ritorno di chi lo lascia: lui deve gettare nelle onde le conchiglie che ha raccolto durante l’estate; rovesciare in mare la tavola apparecchiata per l’amata, ivi compreso il resto del vino. Il crescendo continua enumerando la necessità di un obolo di pane per i pesci e di sangue proprio, da mescolare nel mare. Chi parte deve inoltre affilare bene nelle onde il suo pugnale e lasciare che affondino «le scarpe, il cuore, l’ancora e la croce»: una sorta di rito espiatorio per il bene del ritorno.

Il quale resta ugualmente insicuro per la minaccia di un elemento dal quale la Bachmann si è sempre sentita attratta «c’è fuoco sotto la terra/ e il fuoco è puro.// C’è fuoco sotto la terra/ e pietra liquida.//C’è un flusso sotto la terra,/ che ci inonda.//C’è un flusso sotto la terra,/che brucia le ossa.//Verrà un grande fuoco,/verrà un torrente sulla terra.//Noi ne saremo testimoni»:

es ist Feuer unter der Erde
und das Feuer ist rein.
Es ist Feuer unter der Erde
und flüssiger Stein.

Es ist ein Strom unter der Erde,
der strömt in uns ein.
Es ist ein Strom unter der Erde,
der sengt das Gebein.

Es kommt ein großes Feuer,
es kommt ein Strom über die Erde.
Wir werden Zeugen sein. (Werke, pp. 123-24).

Nella lirica dedicata al sole (An die Sonne) anche il mare, come la luna, le stelle e perfino la luminosa apparizione di una cometa, perde la sua importanza senza la luce del sole. Anzi anche l’arte si cela dietro il suo proprio velo e scompare: «Senza il sole anche l’arte riprende il velo,/ tu non mi appari più, e il mare e la sabbia/, afflitti dall’ombra, fuggono dal mio ciglio». Ritorna qui l’elogio della luce come quintessenza dell’arte e come l’elemento più prezioso del paesaggio mediterraneo:

Ohne die Sonne nimmt auch die Kunst wieder den Schleier,
Du erscheinst mir nicht mehr, und die See und der Sand
Von Schatten gepeitscht, fliehen unter mein Lid. (Werke, p. 136)

Nei confronti del quale paesaggio l’autrice non è disposta a condividere lo stato d’animo consueto all’uomo del nord, una visione superficialmente arcadica del sud sulla quale lei ironizza già nella lirica Herbstmanöver (Manovre autunnali): «Concedeteci un viaggio| e che sotto i cipressi/o le palme o negli aranceti possiamo/a prezzi ridotti vedere tramonti/ che non hanno l’eguale»:

Laßt uns eine Reise tun! Laßt uns unter Zypressen
oder auch unter Palmen oder in den Orangenhainen
zu verbilligten Preisen Sonnenuntergänge sehen,
die nicht ihresgleichen haben! (Werke, p. 36).

La Bachmann sa che non si può fare poesia astratta dalla realtà storica. Nella fattispecie, non si possono dimenticare i guasti della guerra fredda ricorrendo a un viaggio verso paesi dal clima più clemente. Testualmente: «E la fuga verso il sud non ci torna,/come agli uccelli, di scampo». Lo stesso tema viene variato nella lirica intitolata Nord e Sud, dove l’impossibilità di un sentire arcadico è dichiarata in quanto già di per sé un anacronismo: «Troppo tardi raggiungemmo il giardino dei giardini/in quel sonno di cui nessun altro sa qualcosa»:

Zu spät erreichten wir der Gärten Garten
in jenem Schlaf, von dem kein dritter weiß. (Werke, p. 125).

Forse il luogo in cui il fascino del paesaggio mediterraneo è descritto nel modo più diretto, cioè più legato alla realtà vista dalla viaggiatrice, si concreta nei versi dedicati al fiume Akragas (Am Akragas). Il tono è quasi fiabesco, favorito da versi rimati e disposti a rondeau. Tuttavia il quadro risulta assai nitido e lega in lievi passaggi la compresenza di elementi naturali particolarmente armoniosi: le acque cristalline del fiume, la musica soffusa degli eucalipti agitati dal vento e alternata a quella del mare, che tiene aperte le porte del vecchio tempio. Il tutto illuminato dalle «fiamme silenziose» del tramonto:

Und geweiht vom Licht und stummen Bränden
hält das Meer den alten Tempel offen,
wenn der Fluß, bis an den Quell getroffen,
mit geklärtem Wasser in den Händen
seine Weihen nimmt von stummen Bränden.

Diversa l’utilizzazione del paesaggio meridionale nel poemetto lirico Lieder auf der Flucht (Canti della fuga), che chiude la raccolta Invocazione dell’Orsa maggiore (Anrufung des großen Bären, 1956). Tema di questi Lieder è l’amore, non la narrazione o la rievocazione di una storia determinata, ma una sintesi del suo valore archetipico. Non a caso il poemetto porta come dedica una terzina dei Trionfi del Petrarca:

Dura legge d’Amor! Ma benché obliqua,
Servar conviensi; però ch’ella aggiunge
Di cielo in terra, universale, antiqua.

Se la rileggiamo dopo aver concluso la lettura del poemetto, sentiamo tutta la distanza che separa i due poeti intorno allo stesso tema. Anche per il Petrarca l’amore è una legge dura e avversa, ambigua (obliqua), ma essa viene accettata per la sua provenienza celeste, che la rende universale e perenne. Non è questo il sentire della Bachmann, alla quale in particolare non si addice il tono di rassegnazione di fronte a una legge, sol perché accettata da universale convenzione. E tuttavia, proprio perché scettica, le piace mettere il suo dramma sotto l’egida di un poeta autorevole che più degli altri si è dedicato al tema dell’amore.

I Canti della fuga sono ambientati in una città marina e meridionale quant’altra mai, Napoli. Ma il lettore che non conoscesse la metropoli partenopea, poche informazioni trarrebbe qui sulla sua geografia o sulla sua urbanistica. Viene piuttosto spiazzato fin dall’inizio nel trovare una città di clima moderato prigioniera del gelo e della neve. Particolare non riferito come un curioso dettaglio meteorologico, ma per mostrare lo stravolgimento che le intemperie apportano nella città, tra i suoi bambini e nella natura mediterranea: la palma spezzata dalla neve, l’oro dei mandarini squassato dalle raffiche di vento, rotola l’arancia sanguigna.

L’introduzione della protagonista accresce il senso dell’ostilità diffuso dalla città invernale: è una persona sola o in compagnia dei morti, abbandonata a se stessa, pur essendo ferita e prigioniera della neve:

Ich aber liege allein1
im Eisverhau voller Wunden.
………………………………..
Niemand liebt mich und hat
für mich eine Lampe geschwungen!

Con ciò si dà il tono fondamentale di tutta la lirica, nella quale la città di Napoli è chiamata a prendere parte al dramma della protagonista, alla sua impossibile fuga, e a perdere perciò i connotati tradizionali. Mentre le isole Sporadi, un gioiello del mare Egeo, offrono ancora dei frutti e vengono soccorse da navi apportatrici di salvezza, il golfo di Napoli «si è arreso con tutte le sue luci», essendo la città assediata da commandos aerei.

L’asprezza del dramma amoroso, la sua impossibilità di attingere l’eternità ambita dagli innamorati, si riversano così nel paesaggio meridionale, che oppone un impedimento dopo l’altro alla fuga della protagonista. La salvezza non le arriverebbe nemmeno se un pesce, novello delfino di Arione, aprisse le sue pinne per trasportarla indenne attraverso i flutti; né se le onde si ritirassero per risparmiare a chi fugge parte del suo cammino; e nemmeno se la bruma si trasformasse in muro protettivo rispetto alla città.

Sono metafore ardite che servono a suggerire l’impossibilità di una fuga per mare e per terra, e che poco o nulla conservano del colore locale. Al quale la poetessa ricorre alla bisogna, come quando deve rappresentare il risveglio della città dopo il disgelo. Si serve allora della popolare via Toledo in festa, nella quale «sfociano tutti i suoni», o dell’omaggio alle inesauribili riserve della flora mediterranea (l’uva passa, i capperi, i fichi), chiamati a spazzare l’inverno e a destare l’estate a nuova vita.

Non mancano però i rilievi ironici sul carattere del popolo napoletano, «diffidente, pigro e antico», che porta nel volto i segni di un’esistenza «dedita ai traffici e avvezza ai pericoli», essendo cresciuto ai piedi del vulcano e del suo infuocato demone. Con eleganza viene celebrato anche il culto della superstizione: «Il gatto nero,/l’olio per terra/ il malocchio!// Disgrazia!»:

Die schwarze Katze,
das Öl auf dem Boden,
der böse Blick:
Unglück!

Non è scherzoso però l’andamento dell’exemplum amoroso. Esso viene portato fino ai limiti del possibile per tentare le vie dell’inesprimibile, caro alla poetica della Bachmann. L’esperienza amorosa viene descritta senza scadere nel moralismo né nella banalità. Le bellezze del corpo dell’amato sono descritte con l’aiuto del modello alto del Cantico dei cantici e consentono all’io di liberarsi dai vincoli della contingenza per intonare un canto di sfida alla stessa morte: «Dentro sono le tue ossa chiari flauti,/da cui posso ricavare note magiche,/che incanteranno la stessa morte» (Werke, p. 142).

È qui anticipata l’affermazione del canto poetico come strumento capace di sfidare il tempo. Ma, come si ribadisce nel finale, si tratta di un trionfo dell’amore, non di chi lo ha vissuto. Questi è soggetto a un doppio limite. Uno di carattere individuale, che porta l’amante a trasformare la pace iniziale del rapporto amoroso in una lotta tanto bellicosa quanto infantile, della quale alla fine restano solo «follia, disprezzo, e quindi vendetta», seguiti presto dal pentimento e dal pentirsi di essersi pentiti. È il clima che porta la fiamma d’amore a spegnersi in se stessa, agonizzante, tra fumo e caligine: «Verqualmt, verendend im Qualm, geht die Flamme in sich» (Werke, p. 144).

E c’è un secondo limite di carattere universale, che rende precario l’amore e il tentativo di fuggirne. Irrompe nell’ottavo Lied una prospettiva apocalittica che investe la terra, il mare e il cielo nel movimento senza tregua cui è sottoposto il creato. La terra soprattutto, destinata alla sconfitta, nonostante le arroganti creazioni di «torri e vette superbe» e nonostante la presenza di «campi magnetici e di energie ancora sconosciute», rappresenta un territorio irrazionale, che trascende i limiti di ogni sforzo individuale. L’ esperienza d’amore viene perciò ridimensionata perché incomprensibile e inaffidabile risulta la terra nella quale dovrebbe realizzarsi.

È poi chiaro che questa terra non è più quella che porta i tratti distintivi della terraferma mediterranea, ma una terra che si è estesa a dimensioni planetarie e include «le steppe, i deserti e le tundre». Una terra, sembra di capire, divenuta inospitale anche alla lirica fin qui realizzata. Leggiamo infatti: «Abbracciata dalle mie parole/ la terra,/ abbracciati ancora dalla mia ultima parola/ il mare e la terra» (Werke, p. 143). E ancora, tra i regali promessi all’amato, vengono ironicamente enumerati le sillabe dell’oleandro, parole contenute nel verde dell’acacia, cascate dalla parete:

Silben im Oleander
Wort im Akaziengrün
Kaskaden aus der Wand.

Si tratta cioè di quegli artifici che la poetessa non vorrà più adoperare, ossia di un programma in negativo. Il legame con la città resta affidato a qualche dettaglio, come l’abitudine di rivolgersi al Santo in momenti di calamità, cosa però che non riesce alla fuggitiva:// Il Santo ha altro da fare:/pensa alla città/ e va alla ricerca del pane» (Werke, p. 146).

Anche il mare mediterraneo diventa irriconoscibile. Menzionato agli inizi nel golfo di Napoli nella ricchezza delle sue luci, ora viene spogliato di ogni attrattiva. A sancire il fallimento dell’utopia amorosa viene chiamato un mare privo della sua voce e del calore del sole:

Il sole non riscalda, privo di voce il mare.

Così il mare e la terraferma del mediterraneo fanno da preludio al congedo della poetessa dal pur pugnace soggettivismo della lirica precedente. Nessun paesaggio e nessun artificio retorico bastano più ad esprimere il vuoto esistenziale provocato dalla situazione storica e dalla corruzione del linguaggio poetico. In un mondo nel quale «la guerra, la vera guerra consiste nell’esplosione di questa guerra che chiamiamo pace», diventa sempre più forte il dubbio che il mondo lirico possa avere la forza di giustificare la sua presenza in una realtà effettuale che sembra escludere una conciliazione tra verità e bellezza. Meglio allora rinunciare agli incantesimi del verso e del metro, agli addobbi di metafore e immagini, e proseguire le proprie battaglie col mezzo diverso della prosa.


1. I.Bachmann, Vision, in Werke, hrsg. von Christine Koschel, Inge von Weidenbaum, Clemens Münster, Band I, München/Zürich 1978, p.18. Più avanti citato con la sigla Werke, seguito dal numero della pagina.

2. I.Bachmann, Ausfahrt, in Werke ,pp. 28-29.

3. I.Bachmann, Am Akragas, in Werke, p.135: «E consacrato dalla luce e da fiamme silenziose/il mare tiene aperto il tempio antico,/quando il fiume, colpito fino alla sorgente,/con acqua purificata nelle mani/prende la sua consacracrazione da fiamme silenziose».

4. Probabile il riecheggiamento di un verso di Saffo (‘égo de mona kate’udo ‘), che serve a sollevare questo dramma allo stile alto della lirica amorosa.

5. I.Bachmann, Lieder auf der Flucht, in Werke, p.139: «Ma io giaccio sola/piena di ferite nel reticolo di neve.//…Nessuno mi ama ed ha/per me agitato un lume!»

6. Il verso dell’originale«Die Sonne wärmt nicht, stimmlos ist das Meer» riecheggia forse il wagneriano «Öd und leer das Meer».

7. I.Bachmann, Intervista a Dieter Zilligen del 22 marzo 1971, in Wir müssen wahre Sätze finden, Gespräche und Interviews, hrsg. von C. Koschel und I. von Weidenbaum, Piper, München/Zürich 1983, p. 70

 Ingeborg Bachmann, Vision, in Werke, a cura di Christine Koschel, Inge von Weidenbaum, Clemens Münster, Vol. I, München/Zürich 1978, p. 18. Più avanti citato con la sigla Werke, seguito dal numero della pagina.

 Ingeborg Bachmann, Ausfahrt, in Werke, pp. 28-29.

 Ingeborg Bachmann, Am Akragas, in Werke, p. 135: «E consacrato dalla luce e da fiamme silenziose/il mare tiene aperto il tempio antico,/quando il fiume, colpito fino alla sorgente,/con acqua purificata nelle mani/prende la sua consacrazione da fiamme silenziose».

1 Probabile il riecheggiamento di un verso di Saffo (‘), che serve a sollevare questo dramma allo stile alto della lirica amorosa.

 Ingeborg Bachmann, Lieder auf der Flucht, in Werke, p. 139: «Ma io giaccio sola/piena di ferite nel reticolo di neve.//…Nessuno mi ama ed ha/per me agitato un lume!»

 Il verso dell’originale «Die Sonne wärmt nicht, stimmlos ist das Meer» riecheggia forse il wagneriano «Öd und leer das Meer».

 Ingeborg Bachmann, Intervista a Dieter Zilligen del 22 marzo 1971, in Wir müssen wahre Sätze finden, Gespräche und Interviews, hrsg. von C. Koschel und I. von Weidenbaum, München/Zürich 1983, p. 70.