Panorama letterario del dopoguerra

Giuseppe Dolei †
(Università degli Studi di Catania)

 

Abstract

Der Beitrag skizziert die literarischen Widerspiegelungen der materiellen und moralischen Zerstörungen der Nachkriegszeit. In den Versen Ungaretti, Saba oder Eliot, so wie im Drama Die Wandlung von Ernst Toller oder in der Erzählung Der Mensch ist gut von Leonhard Frank taucht die Verzweiflung eines leidenden und verirrten Europas auf.

 

Fra tutte le trasformazioni avvenute in Europa in seguito alla Grande guerra la maggiore, simile a un vero e proprio crollo, fu imposta all’Impero austro-ungarico, Qui, istituzionalmente, cadde la dinastia degli Asburgo, onusta di tradizioni quasi millenarie; territorialmente, l’Impero fu amputato delle sue membra, riducendosi a un centro di sette milioni di abitanti dei cinquanta che ne contava prima della guerra, “un tronco mutilato, sanguinante da ogni parte”1. Tolti i boemi, i polacchi, gli italiani gli sloveni; privo delle fabbriche allocate in territorio straniero, malridotte le ferrovie, il vecchio impero si trasformò in uno Stato paradossale, i cui abitanti quasi non vi si riconoscevano più.

Questo fu il risultato più eclatante della Grande guerra. Ma nessuna delle potenze belligeranti, nemmeno di quelle vincitrici, ebbe da rallegrarsi dell’esito del conflitto. Sentiamo le sagge parole pronunciate da Benedetto Croce all’annuncio della tanto sospirata vittoria: “Far festa perché? La nostra Italia esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito pronto, l’animo accresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e svolgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza. E centinaia di migliaia del nostro popolo sono periti, e ognuno di noi rivede, in questo momento, i volti mesti degli amici che abbiamo perduto, squarciati dalla mitraglia, spirati sulle aride rocce e tra i cespugli, lungi dalle loro case e dai loro cari. E la stessa desolazione è nel mondo tutto, tra i popoli nostri alleati e i nostri avversari, uomini come noi, desolati più di noi, perché tutte le morti dei loro cari, tutti gli stenti, tutti i sacrifizi non sono valsi a salvarli dalla disfatta. E grandi imperi che avevano per secoli adunate e disciplinate le genti di gran parte d’Europa, e indirizzandole al lavoro del pensiero e della civiltà, al progresso umano, sono caduti; Grandi imperi ricchi di memorie e di glorie; E ogni animo gentile non può non essere compreso di riverenza dinanzi all’adempirsi inesorabile del destino storico, che infrange e dissipa gli Stati come gli individui per creare nuove forme di vita”2.

Parole sagge e profetiche. L’Italia pagò un prezzo altissimo alla vittoria del 4 novembre 1918. Alla perdita immediata di milioni di giovani patrioti si aggiunsero, qualche anno dopo, il crollo dello Stato democratico e l’avvento di una ventennale dittatura.

I poeti non dispongono di strumenti statistici o logistici. Possiedono però antenne più sensibili di quelle dell’uomo comune e sentono istintivamente la gravità di una situazione, lo sconvolgimento dei valori tradizionali che un conflitto può infliggere a un popolo intero. Giuseppe Ungaretti, soldato di trincea, durante una pausa dei bombardamenti nel bosco di Couton dedicò ai soldati (1918) la seguente lirica:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
3

È una lirica brevissima che applica con drammatica espressività i canoni della poesia ermetica. La chiave di questo sapiente edificio è l’avverbio del verso secondo: d’autunno. In primavera le foglie sbocciano alla vita, fanno festa nella e con la natura. Ma in autunno perdono colore e forza, né sanno quando una folata di vento ne decreterà la morte. Tale è la sorte dei soldati al fronte: appesi al filo invisibile del destino, precipitati in una condizione di precarietà assoluta.

I veri poeti hanno la caratteristica di non esaurirsi nella corrente letteraria scelta. Lo stesso Ungaretti, in altro momento della guerra di trincea, non sa più obbedire ai canoni della poesia ermetica, anche se nella versione definitiva della seguente poesia la abbrevia da venti a dodici versi. Sono interventi a mente fredda. Ma il cuore del poeta si esprime più disperatamente nella prima versione, dinanzi allo spettacolo di una distruzione universale: le case ridotte a brandelli di muro, i compagni d’arme più vicini polverizzati dalle granate e introvabili persino nei cimiteri. Valgono come dispersi, ma non per il cuore del poeta, dove non manca nemmeno una croce dei soldati che gli corrispondevano:

San Martino del Carso

Di queste case
non c’è rimasto
che qualche
brandello di muro
esposto all’aria

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
nei cimiteri

Ma nel cuore
nessuna croce manca
innalzata
di sentinella
a che?

Sono morti
cuore malato
perché io guardi al mio cuore
come a uno straziato paese
qualche volta.4

Anche Umberto Saba fu arruolato nella Grande guerra. Fu interventista per amore della patria Trieste, ma rimase sempre vicino alle sofferenze del popolo, di cui da fratello capiva il bene e il male dell’esistenza. Nella poesia Cucina economica il poeta inneggia alle usanze miracolosamente intatte di un pasto frugale, consumato tra muratori e accanto a un vecchio, cui manca il vino, ma è beato nel tepore dell’osteria come un “nascituro dentro il grembo materno”5 E Saba, che pure è indotto a pensare al suo “povero padre ramingo”, prova la consolazione di essere tornato “al popolo in cui muoio, onde son nato”6. Quando il popolo è chiamato al fronte, Saba è tra loro, tra i soldati che alla stazione aspettano il segnale della partenza. Tra gli “ultimi addii”, tra i “mal frenati pianti” arriva infine il segnale della tromba. Bisogna partire “ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava”7.

L’eroe della guerra che Saba innalza agli onori della lirica si chiama Zaccaria il quale in tempo di pace “volle d’agricoltor farsi operaio”8. Torna a casa, ferito al braccio, per salutare la madre, quella madre che in dieci anni gli ha dato sei fratellini. Ora stenta a riconoscere nel soldato ferito la faccia del figlio. Questi non ha molto da dire. Canterà con i camerati la canzone “Fermati Austria, ch’io sto per morire”:

Zaccaria

[…]
E narra come, il braccio al collo, un giorno
tornò alla casa per la guerra mesta.
Nella corte una bimba s’alzò lesta ,
dette un grido. Egli, “Zitta – disse – Mima;

dov’è mia madre?” Della scala in cima
l’abbracciò, né il vedersi fu una festa,
“Questa – piangeva – di mio figlio è questa
la faccia?” “Intero – rispose – ti torno.

Il braccio? Poco ci mette a guarire.
Coraggio madre; su vi dico; buona”,
E tace, e appena ha più nulla da dire:

“Fermati Austria, ch’io sto per morire”
coi camerati la canzone intona:
“I miei compagni li vedo fuggire”. […]9

Il comando-preghiera espresso in questo canto militare stava per trasformarsi in realtà. Il crollo militare della Russia e la sua ritirata dalla guerra convinsero gli ambienti più pacifisti della corte austriaca dell’opportunità di mettere fine al conflitto che aveva già mietuto milioni di vittime. Il giurista e statista Heinrich Lammasch, congratulandosi con Stefan Zweig per il pacifismo del suo dramma Geremia, gli confidò un piano segreto cui non era estraneo lo stesso imperatore Carlo. L’Austria “doveva […] sciogliersi tempestivamente dall’alleanza prima di essere trascinata ad una catastrofe dai militaristi tedeschi”. Il vecchio giurista aggiunse: “Nessuno può incolparci di infedeltà. Noi abbiamo già un milione di morti. Abbiamo fatto abbastanza sacrifici. Adesso nemmeno una sola vita per il dominio mondiale tedesco!”10.

Purtroppo il piano di intavolare trattative con Clemenceau fallì e l’Austria fu effettivamente trascinata alla catastrofe del 1918.Tuttavia il conflitto non durò trent’anni come in tono faceto ipotizzava Thomas Mann, che concludeva le tormentate Betrachtungen eines Unpolitischen (1918) giusto il giorno in cui si annunciava la trattativa per l’armistizio tra Germania e Russia. L’amata Russia usciva dalla guerra e i nemici della Germania restavano le odiate democrazie occidentali, “la civilizzazione, la letteratura, la politica, il borghese retorico”11. Rispetto a un tale tipo di avversari il contrasto con la Germania restava insanabile, giacché non di una guerra si trattava, bensì di una profonda frattura storica, simile appunto a quella intercorsa tra il 1618 e il 1648.

Ironia della storia, qualche anno dopo la fine della guerra i temi connaturati alla cultura tedesca – la natura, la musica, la malattia, la morte – non furono intonati da un novello Schopenhauer o Nietzsche, ma da un ragguardevole rappresentante della civilizzazione, abitante di una capitale occidentale (Londra) mai simpatica alla Germania imperiale. Trasferitosi dagli Stati Uniti in Europa, Thomas Stearn Eliot si accosta alla cultura francese soggiornando un anno a Parigi, dove studia alla Sorbona. Il poeta conosce anche la cultura tedesca grazie a una borsa di studio assegnatagli poco prima dello scoppio della guerra.

Il suo celebre poema La terra desolata (The Waste Land, 1922) assume una prospettiva quanto mai pessimistica. La primavera, e aprile che ne è il mese centrale, viene vista come una crudeltà della natura, che risveglia le radici sopite dall’inverno, del quale si elogia la funzione benevola all’uomo, lo mantiene al caldo e nutre sotto la neve con tuberi secchi la miseria della sua stagione:

La terra desolata
Il seppellimento dei morti

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
L’inverno ci tenne caldi, coprendo
La terra di neve obliosa, nutrendo
Grama vita con tuberi secchi.
L’estate ci sorprese, piombando sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia; Ci fermammo nel colonnato,
E avanzammo nel sole, nel Hofgarten,
E bevemmo caffè e parlammo per un’ora,
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Littauen, echt deutsch.
E da bimbi, quando si stava dall’arciduca
Mio cugino, lui mi condusse in slitta
E io presi uno spavento. Mi disse: Marie,
Marie, tienti forte. E giù scivolammo.
Sulle montagne ci si sente liberi.
Io leggo quasi tutta la notte, e d’inverno me ne vo nel sud.

Quali radici s’abbarbicano, quali rami crescono
Su queste macerie? Figliuol d’uomo,
Tu non lo puoi dire, né immaginare, perché tu conosci soltanto
Un mondo di frante immagini dove batte il sole,
E l’albero secco non dà riparo e il canto del grillo non dà ristoro,
E l’arida pietra non dà suon d’acqua. Solo
V’è ombra sotto questa rossa roccia,
E io vi mostrerò cosa diversa
Dall’ombra vostra che da mane vi cammina dietro,
Dall’ombra vostra che a sera si leva ad incontrarvi;
Vi mostrerò il terrore in un pugno di polvere.
Frisch weht der Wind
Der Heimat zu,
Mein Irisch Kind,
Wo weilst du?
“Mi hai dato giacinti per la prima volta un anno fa;
M’han chiamata la ragazza dai giacinti”.
-Eppure quando tornammo, a tarda ora, dal Giardino dei Giacinti,
(Le tue braccia cariche, i tuoi capelli madidi) io non potevo
Parlare, gli occhi mi si annebbiavano, io non mi sentivo
Né viva né morta, io nulla sapevo,
Mentre guardavo il cuore della luce, il silenzio.
Öd und leer das Meer.

Madame Sosostris, famosa cartomante,
Aveva un forte raffreddore, nondimeno
Passa per la donna più sapiente d’Europa,
Con un diabolico mazzo di carte. Ecco, diss’ella,
La vostra carta, il Marinaio Fenicio annegato,
(Those are pearls that were his eyes. Guardate!)
Ecco Belladonna, la Donna delle Rocce,
La Donna delle situazioni.
Ecco l’uomo dalle tre aste, ecco la Ruota,
Ecco il Mercante cieco da un occhio, e questa carta,
Che è bianca, è qualcosa che egli reca sulla schiena
Che mi è vietato di vedere. Non trovo
l’Impiccato. Temete la morte per acqua.
Vedo folle di gente che girano in tondo.
Grazie. Se vedete quella cara Mrs Equitone,
Ditele che le porto l’oroscopo io stessa:
Bisogna essere così prudenti oggigiorno!

Città irreale,
Sotto la nebbia marrone d’un’alba d’inverno,
La gente si riversava su London Bridge, tanta,
Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
Sospiri, corti e rari, ne esalavano,
E ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi.
Affluivano sulla salita, e giù per King William Street,
Fin dove Saint Mary Woolnoth segnava l’ore
Con suono sordo sull’ultimo tocco delle nove.
Là io vidi uno che conoscevo, e lo fermai gridando: “Stetson!
Tu che eri con me sulle navi a Mylae!
Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato nel tuo giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
O l’improvvisa brinata ha disturbato la sua aiuola?
Oh tien lontano di qui il cane, che è amico all’uomo,
O con le sue unghie lo metterà allo scoperto!
Tu hypocrite lecteur!-mon semblable,-mon frère!”12

Già nel primo capitolo del poema Il seppellimento dei morti parlano quattro voci diverse e l’ombra della morte si allunga dai morti veri e propri, di cui si celebra la sepoltura, alle migliaia di vivi che popolano la città irreale di Londra: c’è tanta gente che il poeta, citando Dante, mai “avrebbe creduto che morte tanta n’avesse disfatta” (Inferno, iii, vv.55-57). Le citazioni non si limitano a Dante o Baudelaire, ma si estendono a Wagner, di cui viene inserita nell’originale una strofa del Tristano e Isotta: per accostare un esempio di amore eroico a uno di estrazione borghese, e approdare alla conclusione della vanità di entrambi gli amori: Öd und leer das Meer.

Si riflette nel poemetto il profilo di una società fragile, che ricorre al gioco dei tarocchi per attingere a un destino temuto. Una famosa cartomante passa per la donna più sapiente d’Europa. Nel finale del capitolo Eliot fa un salto indietro nella storia spingendosi fino alla battaglia di Milazzo (Guerra punica, 260 a.C.) attualizzata dalla fantomatica presenza di uno di quei morti nel giardino di un suo amico, nel quale potrebbe rigermogliare, agenti atmosferici permettendo. In conclusione, già nel primo capitolo del poema c’è materia sufficiente per definire La terra desolata come l’ecatombe lirica di quell’Europa di cui la guerra aveva effettuato l’ecatombe fisica.

Nulla di metafisico sulla scena letteraria tedesca. Le ferite del militarismo sono state in Germania così profonde che non era possibile volgere altrove lo sguardo. Qualcuno, come Ernst Toller, troverà solo nel suicidio, consumato nell’esilio americano, la soluzione a tutte le contraddizioni della sua esistenza. Disprezzato in Polonia dai polacchi in quanto tedesco e dai tedeschi in quanto ebreo, Toller fu indotto dal suo animo generoso ad arruolarsi in difesa della Germania. L’esperienza del fronte modificò profondamente le sue idee e a Monaco, dove si era trasferito dopo la licenza militare, divenne socialdemocratico e successivamente comunista. Ebbe posizione di rilievo nella Repubblica dei Consigli, per cui fu condannato a cinque anni di carcere quando la reazione prese il sopravvento.

L’opera La svolta (Die Wandlung, 1917-18) mette a nudo in sei tappe o Stationen il dramma di un soldato, dall’animo buono e pacifista, messo di fronte agli orrori di una guerra inutilmente sanguinosa, Migliaia di feriti e di morti (qui resuscitati a personaggi) hanno combattuto per una guerra priva di ideali. Stipati in una tradotta in un viaggio senza fine, i soldati imprecano contro l’occasione che li mise al mondo, lamentano tutti di essere stati “angosciati” dal padre e “immolati” dalla madre. Friedrich, che è l’unico personaggio a portare un nome, alla madre che vedova si lagna di avere compiuto immensi sacrifici per assicurare un avvenire al figlio, obietta: “Sì, il mio avvenire materiale è assicurato. Ma che cosa hai fatto per la mia anima? Mi hai insegnato a odiare gli uomini. Perché?”13. Perché i nemici non sono uguali a noi, come insegna persino il parroco, che dall’esempio di Cristo morto in croce trae il seguente insegnamento: “Date addosso al nemico con tutte le vostre armi, con i gas tossici e i lanciafiamme, coi sommergibili e facendoli morire di fame”14.

Il finale della Wandlung è significativamente analogo al finale del racconto L’uomo è buono (Der Mensch ist gut, 1917) di Leonhard Frank. Figlio di un povero falegname di Würzburg, approdato con una borsa di studio all’Accademia di Belle Arti di Monaco, Frank è un pacifista a tutto tondo. Il suo pacifismo si fonda nella convinzione che l’uomo sia buono e solo le circostanze lo inducono a sbagliare. Della prima guerra mondiale Frank non prende in considerazione moventi politici o economici. La sua diagnosi suona: “L’assenza dell’amore è il nemico e l’origine di questa guerra. L’Europa intera piange perché l’Europa intera non sa più amare”15.

Naturalmente la mancanza d’amore non è solo una questione d’oblio. Lo scrittore passa in rassegna il sistema educativo guglielmino tanto in campo militare quanto, e più, in campo civile: scuola e famiglia. Maestri e genitori fanno a gara per infliggere ai bambini punizioni umilianti, eseguite davanti agli altri scolari o al resto della famiglia. E tuttavia, anche un popolo diseducato militarmente e civilmente non tarda a condannare una guerra tanto nefasta. Assemblando singoli casi di vittime della guerra, Frank si persuade della necessità di una rivoluzione. Ognuno ha i suoi validi motivi di protesta e lo scrittore immagina un infinito corteo di civili, feriti e mutilati marciare concordemente verso Berlino, dopo avere raccolto lungo la marcia feriti di altri ospedali e civili di altre contrade.

A Vienna, epicentro della disfatta, la guerra produce l’opera più ambiziosa e meno riuscita del periodo bellico. Karl Kraus, ben noto al pubblico viennese per le sue taglienti letture pubbliche contro il conformismo borghese e contro le autorità, volle cimentarsi in un’opera maestosa sulla guerra, dall’assassinio dell’arciduca Ferdinando fino al disastroso epilogo. Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzten Tage der Menschheit, 1915-1922) rappresentano una tragedia in cinque atti, un prologo e un epilogo, di tali dimensioni che a rappresentarla tutta ci vorrebbero dieci serate. A prescindere dalla lunghezza, l’opera risulta di pesante lettura. Vorrebbe essere la radiografia della società viennese durante gli anni del conflitto. Ma la sua critica non coglie comportamenti diversi da quelli abituali già prima della guerra.

Dove ci sono i borghesi ottusi allo stato puro. Una voce del pubblico esclama: “Tutto andrà per il meglio! Verrà un’epoca come quella di Maria Teresa, parola mia”16. Ma più numerosi sono quelli che approfittano della situazione per trarne vantaggio. In primo luogo i produttori dell’industria bellica, e poi i produttori di parole. I giornalisti della “Neue Freie Presse” sono maestri del colore, ossia dei toni accesi per propagare la menzogna di una vittoria imminente: “Sentite come torna a risuonare la marcia del Principe Eugenio e l’inno nazionale, e come ad essi si accompagni la ‘Guardia del Reno’, nel segno dell’alleanza germanica. Evviva l’Austria, la Germania e la ‘Neue Freie Presse’”17.

La mole dell’opera le impedisce di rappresentare l’espediente più impressionante per segnalare gli ultimi giorni dell’umanità. Al vorticoso cambio delle scene corrisponde un progressivo spegnimento delle luci, che nel finale cede il posto a una pioggia di meteore e di fiamme, come si addice alla fine del mondo.

 


1 S. Zweig, Il mondo di ieri, a cura di G. Dolei, Edizioni del Prisma, Catania, 1995, p. 257.

2 B. Croce, Pagine di guerra, Laterza, Bari, 1928, pp. 291-292.

3 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1992, p. 125.

4 Ivi, p. 89.

5 U. Saba, Il Canzoniere (1900-1954), Torino, Einaudi, 2004 (1961), p. 393.

6 Ibidem.

7 Ivi, p. 158.

8 Ivi, p. 164.

9 Ivi, p. 165.

10 S. Zweig, Il mondo di ieri, cit., p. 241.

11 Th. Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di M, Marianelli e M. Ingenmey, Adelphi, Milano 1997, p. 584.

12 T.S. Eliot, La terra desolata, trad. di M. Praz, Einaudi, Torino, 1963, pp. 17 ss.

13 E. Toller, La svolta, in E. Toller, Teatro, trad. di E. Castellani, Einaudi, Torino 1968, p.17.

14 Ivi, p. 54.

15 L. Frank, L’uomo è buono, trad. di P. del Zoppo, Del Vecchio editore, Roma 2014, p. 146.

16 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, a cura di E. Braun e M. Carpitella, Adelphi, Milano 1980, p. 53

17 Ivi, p. 175.