Per l’Europa centro-orientale l’autunno del 1918, ovvero la fine della Grande guerra combattuta contro gli eserciti dell’Intesa, rappresentò la fine di un mondo, di un’epoca incarnata nelle dinastie imperiali e insieme l’inizio o la speranza dell’inizio di un mondo nuovo. Come nel collage dadaista di Hannah Höch, Taglio con coltello da cucina, si mescolarono e sovrapposero in quel frangente elementi antichi e moderni, residui dell’ancien régime e manifestazioni di massa, paure, visioni apocalittiche e speranze di palingenesi e utopie. Sul piano politico, nei giorni concitati di fine ottobre e inizi novembre 1918 si intrecciarono caoticamente sconfitte militari, crolli di stati e imperi secolari, rivoluzioni sociali e nazionali, annunci di profonde trasformazioni politiche e culturali. Ancora oggi non vi è piena condivisione tra gli studiosi su quale di questi processi precedette l’altro, se fu ad esempio la sconfitta a produrre la rivoluzione, il crollo o la disgregazione oppure viceversa, e seppure possa suonare banale, si può concludere che i fenomeni si accavallarono e si influenzarono vicendevolmente.
Di certo, l’Europa centrale a partire da quel 1918 divenne l’epicentro della sfida e dello scontro tra due visioni contrapposte che avrebbero caratterizzato il lungo dopoguerra: il wilsonismo e il leninismo. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli, nelle sue due versioni concorrenti (lo stato-nazionale liberaldemocratico e capitalistico da un lato la rivoluzione socialista mondiale e anticolonialistica dall’altro), si impose come una nuova prospettiva di liberazione ed emancipazione con tutte le sue contraddizioni.
Sappiamo bene che in fondo il 1918 e i trattati di pace rappresentarono più un armistizio in quella terribile guerra civile dei trent’anni che durò fino al 1945. Tra le due guerre mondiali, i territori degli ex imperi centrali furono il regno dell’instabilità, segnati fin da subito dalla violenza politica ed etnica e da feroci ideologie in lotta tra loro e tendenti alla delegittimazione e all’eliminazione dell’avversario. Non è un caso che l’interesse per la turbolenta e sempre affascinante Repubblica di Weimar o per il mito asburgico riaffiorò negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso quando si fece più intensa l’esigenza di spiegare le cause dell’avvento del fascismo, il mito della rivoluzione e della democrazia diretta o la nostalgia per un equilibrio perduto. E forse anche oggi la crisi dell’Unione europea, dei sistemi politici, così come le sfide della globalizzazione e della convivenza multietnica, insieme al risorgere di paure e schemi identitari che sembravano superati, sembrano un rinnovato stimolo a interrogarci ancora una volta su quel grande momento storico che sconvolse il mondo cent’anni fa.
I contributi qui raccolti sono il frutto di una riflessione a più voci che ha coinvolto storici e germanisti nell’ambito di un convegno realizzatosi a Ragusa Ibla per la VI edizione delle Giornate iblee della germanistica, presso la Struttura Didattica Speciale di Lingue e letterature straniere dell’Università di Catania, dal 24 al 26 ottobre 2018, in occasione del Centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. L’obiettivo era quello di proporre letture o punti di vista inediti o originali sulla cesura del 1918 nell’area dell’Impero asburgico e dell’Impero guglielmino.
Ragionando su categorie forti, come crollo e rivoluzione, è possibile in effetti scorgere gli aspetti e le sfide che accomunarono i due imperi centrali, sia che si legga quel tornante storico come punto d’arrivo finale di una esperienza storica statuale, millenaria o più recente – e dunque volgendo lo sguardo all’indietro e al passato -, sia che lo si legga come punto di partenza di una nuova realtà, lo stato-nazionale repubblicano, democratico, socialista o dittatoriale – e dunque volgendo lo sguardo al futuro o all’utopia.
È un percorso apparentemente molto simile, che condivide la sconfitta militare degli ultimi mesi, il disfacimento del fronte interno che delegittima progressivamente i ceti dirigenti politici e militari fino ad arrivare al Kaiser, la fame e la rivolta contro il vecchio regime, di cui sono protagonisti i reduci, gli operai, le donne e i consigli di operai e soldati, l’azione di recupero e di incanalamento dei partiti politici, le nuove costituzioni democratiche, le dure imposizioni delle potenze vincitrici, la ripresa delle forze conservatrici o reazionarie dalla seconda metà del 1919 in un contesto in cui si mescolano ovunque continuità e discontinuità.
Eppure, scendendo più in profondità, le differenze emergono e contribuiscono a delineare delle vie peculiari di uscita, pur all’interno di uno stesso schema generale di crisi. L’impero asburgico è avviato alla disgregazione anche e soprattutto dalla deliberata scelta da parte delle potenze dell’Intesa di fomentare, nell’ultima fase del conflitto, le divisioni etniche e nazionali al suo interno. Ciò permetterà peraltro di deviare, in buona parte, il malcontento di soldati e popolazioni dell’Europa centro-orientale dal contagio bolscevico. Non è un caso che le proclamazioni di forme di autonomia e indipendenza da parte di comitati nazionali dei territori slavi (cechi, croati, polacchi), prima in esilio poi nelle principali città, e infine della stessa Ungheria precedano la fine effettiva dell’impegno militare sul fronte italiano del 3 novembre 1918. Il riconoscimento ufficiale dei rappresentanti nazionalisti slavi a Parigi, Londra e Washington così come, involontariamente, lo stesso manifesto dell’imperatore Carlo il 16 ottobre, che prefigura uno stato federale, accelerano quelle rivoluzioni nazionali che contraddistinguono il crollo della monarchia austro-ungarica da quello dell’alleato tedesco, che, a parte alcune amputazioni, non dovrà conoscere il disfacimento completo e lo spezzettamento del suo territorio statale.
Se poi, come la storiografia più recente ha ormai comprovato, il crollo del fronte interno, per il caos burocratico nonché lo sfinimento in termini di risorse, approvvigionamenti alimentari e di consenso delle popolazioni, e la sconfitta degli eserciti sui campi di battaglia e nelle trincee sono intimamente correlati e dunque le facce di una stessa medaglia, la diatriba se viene prima il crollo o la sconfitta militare perde di significato.
Interpretare il collasso degli imperi principalmente come un tracollo interno dello stato e dei suoi apparati (compresa la dinastia regnante), che si verifica prima al centro, nella capitale, che non alla periferia – è questa, ad esempio, la versione di Paolo Macry – significa peraltro che il primo trionfo della rivoluzione è in realtà la fine del vecchio stato. Ciò che corona gli ultimi giorni dello stato, dopo la paralisi politica e amministrativa e la delegittimazione popolare, non a caso è la rinuncia all’uso della forza che si materializza nella fraternizzazione delle truppe inviate per reprimere i manifestanti, come si verifica in Germania, o semplicemente nell’assenza di ordini a fronte di un esercito che si smobilita in mille direzioni, come avviene in Austria-Ungheria. In quest’ultimo caso i partiti politici costituiscono, nel frattempo, di loro volontà un governo provvisorio, alternativo a quello imperiale che, con l’avallo dello stesso imperatore, si prepara a una pacifica e concordata transizione di poteri.
Resta semmai da chiedersi perché gli apparati statali dei due imperi centrali si sfaldano così facilmente in quegli ultimi giorni di ottobre e inizi novembre. Nel caso asburgico, la nuova storiografia revisionista ha ormai scartato l’ipotesi del declino inevitabile, da lungo prevedibile, così come la stessa immagine consolidata di un impero anacronistico e “prigione dei popoli”. Fu la prima guerra mondiale ad essere determinante e soltanto negli ultimi suoi momenti. Decisivi furono soprattutto il ruolo dei vertici militari, sia sul piano bellico che sul piano della gestione delle proprie popolazioni civili e infine gli errori, la disorganizzazione, l’impreparazione degli stessi ceti dirigenti politici e dei regnanti, oltreché ovviamente la superiorità economica e propagandistica dell’Intesa.
Più difficile la lettura del collasso nel caso dell’Impero guglielmino che pure era una potenza industriale in ascesa e non certo interpretabile come uno stato in decadenza. Forse a pesare maggiormente, oltre agli errori militari, a partire dalla guerra sottomarina, e di informazione, furono i difetti dell’impianto costituzionale. Fondato su una policrazia (Kaiser, generali, cancelliere, Reichstag) esso si rivelò incapace di trovare una sintesi tra la strategia politica e militare, con i capi di stato maggiore, portati a ignorare ottusamente le condizioni della società e della popolazione e orientati a scaricare le responsabilità della sconfitta sulla classe politica e parlamentare allo scopo di impedire lo sfaldamento delle gerarchie dell’esercito e, in generale, del vecchio ordine, ossia la rivoluzione sociale, a tutti i costi, compreso quello di sacrificare le truppe, la flotta e i civili in una resistenza ad oltranza. Sarà proprio quest’ultima scelta, l’azione-suicidio decisa dai vertici della marina a scatenare, com’è noto, la ribellione dei marinai di Kiel che farà da scintilla alla rivoluzione tedesca, all’abdicazione del Kaiser e all’avvento caotico di una repubblica, proclamata dal leader socialdemocratico Scheidemann (peraltro all’insaputa dell’altro dirigente Ebert) e perfino di una repubblica socialista, proclamata poche ore dopo da Liebknecht, sull’onda dei consigli di soldati e operai formatisi in tutto il paese.
Solo a questo punto comincia in effetti la vera rivoluzione che, occupando gli spazi lasciati vuoti dal crollo dello stato, è in fondo proprio il processo di ricostruzione dello stato. E, come ha affermato Günther Mai, in quell’avvio tormentato della repubblica di Weimar si scontreranno, fino almeno al 1920, tre ipotesi di ricostruzione dello stato: una rivoluzione dall’alto, una rivoluzione dal basso, un colpo di stato che instaurasse una dittatura militare. Nella rivoluzione dall’alto prevalse l’idea di un compromesso tra la socialdemocrazia moderata e i poteri forti del vecchio impero (esercito, burocrazia, agrari e industriali), i quali concessero di instaurare una repubblica parlamentare con una costituzione democratica e alcune riforme sociali in cambio del riconoscimento della loro autonomia e sopravvivenza e del soffocamento di ogni tentativo rivoluzionario da sinistra.
La rivoluzione dal basso, imperniatasi sul modello di una democrazia diretta, capace di fare piazza pulita dell’ancien régime ma anche del parlamentarismo liberale, e sostenuta principalmente dalle correnti della sinistra socialista (USPD) e comunista scontò oltre alla frammentazione organizzativa e teorica, l’incapacità di conquistare il controllo degli stessi consigli di operai e soldati. L’utilizzo repressivo da parte del ministro Noske delle formazioni paramilitari dei Freikorps, verso cui affluirono circa mezzo milione di reduci, aprì un abisso insanabile con il partito socialdemocratico al governo. Del resto le stesse aspirazioni golpiste e reazionarie, culminate nel tentativo di Kapp, trovarono alla fine un freno nelle divisioni interne al variegato fronte delle destre tedesche. Il fallimento della seconda e terza opzione lasciò dietro comunque un risentimento destinato a durare per tutta la repubblica di Weimar, simboleggiato rispettivamente dai miti della “rivoluzione tradita” e della “pugnalata alla schiena” che contribuirono a indebolire il consenso alla cosiddetta coalizione di Weimar (SPD, Zentrum e DDP) che vide nel complesso erodere progressivamente il proprio sostegno elettorale.
Sarebbe purtuttavia un errore leggere la crisi di Weimar come già predetta e consumata nella fase di avvio della repubblica. Ciò non esclude che, nel confronto con la nascita della I Repubblica austriaca, alcune condizioni più sfavorevoli verso lo sviluppo della democrazia si imposero con maggiore forza in Germania già dall’inizio (continuità delle élite precedenti, presa della leggenda del Dolchstoß, minore riformismo sociale del partito socialdemocratico, divisione quantitativamente rilevante interna al movimento operaio e alla sinistra). Nei mesi successivi al crollo, in Austria non fu ad esempio necessario l’impiego dell’esercito o di corpi armati di estrema destra per stabilizzare la politica interna (la Volkswehr fu controllata dal partito socialdemocratico); gli aiuti alimentari dell’Intesa e il programma del governo Renner contro la disoccupazione neutralizzarono poi possibili tentativi rivoluzionari (che vi furono semmai più avanti, tra la tarda primavera e l’inizio d’estate del 1919, su sollecitazione delle repubbliche consiliari ungherese e bavarese).
Come emerge dai due saggi iniziali (Giovanni Schininà e Pasquale Fornaro), la socialdemocrazia austriaca fu probabilmente più abile, nella fase iniziale, nel pilotare la transizione del vecchio regime verso una “Staatsbürgerliche Revolution”, una rivoluzione democratica-borghese più ordinata, consensuale e riformatrice (sia nell’ambito dei diritti politici che sul versante sociale). Partiti politici, Länder e burocrazia pubblica furono protagonisti di questo passaggio anche in virtù della esperienza maturata nel tardo impero asburgico, ben prima dello scoppio della Grande guerra, esperienza rivalutata dalla storiografia più recente, a riprova che la continuità non per forza debba esaurirsi nella sola riproposizione di strutture o mentalità arcaiche e antimoderne. Le cesure del 1918-19 appaiono in ogni caso, anche nell’esempio austriaco, più di carattere politico e territoriale che relative ai rapporti socio-economici. Non trascuriamo inoltre il fatto che sia in Austria che in Germania fu concesso il suffragio universale femminile, a differenza di quanto avvenne nelle stesse potenze dell’Intesa.
Assai più problematico rispetto al caso tedesco risulta, invece, il difficile adattamento della neonata repubblica austriaca alle ridotte dimensioni e alla nuova identità nazionale esclusivamente austriaca, e non tedesca, imposta dall’Intesa e all’epoca ben poco condivisa da gran parte dello spettro politico.
E del resto il trionfo degli stati nazionali formalmente democratici nel resto dell’Europa centro-orientale, esaltati come cesura dirompente rispetto all’esperienza asburgica, alla prova dei fatti fu segnato non soltanto ancora per anni da guerre per i confini territoriali ma anche da una elevata disomogeneità etnica interna che ne esaltava il carattere di nuovi “piccoli imperi multinazionali” con l’aggravante che i diritti delle minoranze erano spesso sottoposti a vessazioni più estese che non nella Cisleitania asburgica.
L’avvento della Repubblica consiliare ungherese nella primavera del 1919, come ha ricordato Fornaro, fu dovuto anche e soprattutto alla reazione nei confronti del trattamento considerato umiliante e distruttivo delle potenze vincitrici, rifiuto che fu trasversale alle varie forze politiche, dai liberali fino alla destra nazionalista, che inizialmente speravano di usare la minaccia bolscevica come ricatto, salvo poi rifarsi comunque successivamente sui rivoluzionari nel “terrore bianco”. Non è casuale che in realtà i tre paesi dell’Europa centrale considerati responsabili della guerra e dunque gli sconfitti, la Germania, l’Austria e l’Ungheria (mentre gli altri stati successori furono invece premiati), fossero gli unici, nell’area, dove nel caos della sconfitta e del crollo di un regime, si verificassero tentativi di rivoluzione sul modello sovietico, seppure destinati al fallimento.
E siccome la rivoluzione sociale porta con sè, sempre, anche una grande spinta all’utopia, alla sperimentazione e all’avanguardia e, per contro, produce la paura e gli incubi di scenari apocalittici, tra i controrivoluzionari, una buona parte della produzione letteraria e artistica si rivolse, in contemporanea o in retrospettiva, al 1918. Allineandosi allo spirito multiforme, anarchico e frammentario dell’epoca la presente raccolta ci fornisce un’idea di alcuni esempi rappresentativi. In particolare, alla rivoluzione e all’utopia sono dedicati cinque saggi.
Alla nascita e diffusione del mito rivoluzionario delle rivolte dei marinai di Cattaro, di Kiel e di Kronstadt e alla sua ricorrenza, come insegnamento a non ripetere gli stessi errori, anche negli anni della crisi della Repubblica di Weimar è dedicato il contributo di Antonella Gargano, che si sofferma su tre drammi rappresentati negli anni Trenta nei teatri di Berlino, in cui gli autori, Plievier, Toller e Wolf, proiettano e riflettono le esperienze personali e i fallimenti del dopoguerra e insieme i propri orizzonti utopici.
La rivoluzione come esperienza di vita e come narrazione è al centro del contributo di Lucia Perrone Capano, dedicato a Ernst Toller e al suo scritto autobiografico Una giovinezza in Germania, inserito nel contesto politico del dopoguerra. In Toller l’attività agitatoria è strettamente collegata a quella artistica e entrambe risentono degli interrogativi e delle contraddizioni di un rivoluzionario pacifista. Il 1933 non è comprensibile senza risalire a quanto è accaduto nel 1918 e mantenere lo slancio vitale intriso di umanitarismo e antinazionalismo significa anche trovare una conciliazione tra rivoluzione e libertà.
Il contributo di Giusi Zanasi sottolinea come l’intreccio di fantasie apocalittiche e messianiche presenti nella letteratura espressionista confluisca in utopie rigeneratrici destinate ben presto a spegnersi dopo il fallimento delle rivoluzioni di novembre. Tamburi nella notte di Brecht, scritto nel 1919, rappresenta lo spartiacque tra lo Zeitgeist espressionista e la cultura degli Anni Venti. Restano comunque fondamentali per la comprensione dell’epoca le radici sociopsicologiche dello slancio utopico. Come ha ricordato Eric Weitz (La Germania di Weimar 2008, p. 31), rifacendosi ad Arnold Zweig, “espressionismo, cinema, letteratura e mondo teatrale esplosivo affondavano le loro radici nella doppia percezione della grande distruttività della guerra e della potente creatività della rivoluzione”.
La fine della guerra segna pertanto anche una ripresa e un allargamento dei temi del dibattito culturale e del pensiero di fronte agli sconvolgimenti geopolitici, sociali e esistenziali. Di taglio filosofico-antropologico sono, ad esempio, le riflessioni che Robert Musil rivolge alla Prima guerra mondiale e alla situazione dell’Europa uscita dal conflitto. Come nota Daniela Nelva la guerra ha rappresentato per Musil uno “schianto metafisico” di tutte le ideologie e una rivolta nei confronti delle forme vigenti di organizzazione sociale. Ma egli contesta il nazionalismo, immaginando un’unione europea sovranazionale alternativa alle unità statali, basata su una visione complessiva delle ragioni e dei significati fluidi delle motivazioni e delle azioni umane, che garantisca un confronto aperto tra il singolo e una comunità umana prima ancora che nazionale.
Dal punto di vista della speculazione teorica Micaela Latini indaga l’influsso di problematiche legate alla Prima guerra mondiale nella stesura dello Spirito dell’Utopia di Ernst Bloch. Il concetto di non contemporaneità appare qui nel contesto di un nuovo possibile inizio dopo la catastrofe bellica, sulle cui cause Bloch si interroga ponendosi in antitesi al testo di Spengler sul tramonto dell’Occidente. E l’alternativa utopica è un rinnovamento dell’umanità basato sulla fratellanza, sull’etica della bontà senza profitto, in un incontro mistico tra Oriente e Occidente.
Alla disamina di concetti come il crollo, la rivoluzione e l’utopia segue una seconda sezione, intesa ad analizzare più in particolare il peso del trauma costituito dalla guerra e le conseguenze nelle sfere dei generi e delle generazioni. Va ricordato in proposito che il disfacimento della monarchia asburgica e la delegittimazione della famiglia imperiale e del ruolo paterno del Kaiser ispirarono a Paul Federn, già nel 1919, l’interpretazione del concomitante crollo dell’ordine patriarcale e dell’avvento di una vaterlose Gesellschaft. I contributi si concentrano dunque sulla pesante eredità lasciata dalle esperienze belliche nei sopravvissuti e sulle ideologie che ne hanno tratto alimento. Da un lato abbiamo i problemi pratici, dall’altro le conseguenze psicologiche.
Il 1918 rappresenta l’inizio della lunga questione relativa alla gestione delle centinaia di migliaia di reduci, rientrati dal fronte. È il caso del romanzo Die Geächteten di Ernst von Salomon, analizzato nel suo contributo da Massimo Bonifazio che mette in luce la difficoltà sociopsicologica degli uomini tornati dalla guerra in una società in cui non si riconoscono più anche dal punto di vista del rapporto con le donne. La reazione a quello che Bonifazio definisce il complesso di Giasone è l’esaltazione di un Männerbund dai connotati omoerotici che si combina con un vitalismo nazionalista e antidemocratico, che può trovare una realizzazione postbellica nella militanza nei Freikorps.
Un altro motivo di confronto ideale tra l’esperienza bellica e i cambiamenti culturali all’indomani del conflitto e negli anni seguenti riguarda il conflitto generazionale e la “crisi dell’autorità”. A partire dalle riflessioni critiche di Klaus Mann sulla Jugendbewegung prebellica e sul movimento del Wandervogel, che radicalizzeranno l’irrazionalismo nazionalista, Nadia Centorbi sottolinea il processo di formazione di una nuova identità giovanile che supera i toni accesi del Vater-Sohn-Konflikt dell’immediato dopoguerra, ereditato dall’espressionismo, per cercare un nuovo dialogo intergenerazionale. Dunque, dal conflitto tra vecchi e giovani si passa al conflitto tra generazioni rivoluzionarie e generazioni controrivoluzionarie o conservatrici.
Su un altro versante, quello dei traumi dello spirito, Leo Perutz coglie “i terremoti psichici” di un’epoca e come sottolinea Beatrice Talamo registra e traspone nella sua narrativa le trasformazioni psicologiche che la guerra ha lasciato nei reduci e nella loro percezione della realtà e della dimensione temporale. L’autore praghese cerca di trovare nuove vie in cui raccontare i vuoti e le fratture interiori di individui posti di fronte ad una realtà frammentata.
La rielaborazione dell’esperienza di vita durante la guerra dal punto di vista della popolazione civile è invece presente nell’analisi linguistica del romanzo Jahrgang 1902 di Ernst Glaeser del 1928. Nicoletta Gagliardi analizza in particolare le strategie adottate nella traduzione in italiano di un testo dedicato alla generazione dei bambini e adolescenti smarriti di fronte ad un conflitto che ne stravolge la normale crescita.
Infine, agli echi letterari dell’esperienza bellica e ancor di più della devastazione materiale e morale che ne è seguita, in una più ampia prospettiva europea, è dedicato il contributo di Giuseppe Dolei che nei versi di Ungaretti, Saba e Eliot, così come nel dramma del soldato reduce de La Svolta di Toller o nel racconto L’uomo è buono di Frank ravvede la disperazione di un’Europa dolente e smarrita.
La terza e ultima sezione affronta il problema della continuità e delle trasformazioni delle correnti artistiche nel passaggio dal periodo prebellico alle repubbliche nate dalla dissoluzione degli Imperi.
Un caso esemplare, anche nel contesto della nuova industria dell’intrattenimento di massa, è quello del cinema espressionista, che sembra continuare a dare voce a quelle inquietudini che avevano già preceduto la Prima guerra mondiale. Margherita Bonomo mostra come i fantasmi e le oscure presenze e superstizioni di una cultura tedesca legata al sangue e al suolo che animavano i capolavori del cinema tedesco prebellico, dal Doppelgänger dello Studente di Praga al Golem, ritornino potenziati nelle visioni “Caligariche” del cinema espressionista degli anni Venti. Il carattere di condanna dell’autorità costituita e dei sistemi repressivi si dimostra quale ulteriore caratterizzazione della denuncia di metodi che la guerra ha esaltato.
Anche il contributo di Arturo Larcati sul dramma Die rote Straße di Franz Theodor Csokor evidenzia la ripresa di motivi espressionisti nel dopoguerra, sviluppati da un lato in una direzione sempre più surreale e prefigurante il teatro dell’assurdo, dall’altro quale espressione di una radicale critica anticapitalistica ad una società moderna, votata al dio denaro e al sesso come merce di scambio.
Altri articoli della sezione si soffermano poi sulle ricadute che la guerra e i cambiamenti postbellici hanno avuto sull’atteggiamento degli autori in merito alla funzione della letteratura in generale e nei riguardi della propria attività e stile di scrittura, in particolare.
In questo senso il diario di guerra di Egon Erwin Kisch, autore in prima linea nelle fila dei rivoluzionari viennesi del 1918, mostra come l’esperienza reale venga trasformata in immagini e organizzata allo scopo di divulgare al pubblico una critica antimilitarista e antiautoritaria. Il testo di Kisch non è solo una ricca fonte di informazioni ma, come rileva l’analisi linguistico-stilistica di Beatrice Wilke, anche un luogo di creazione di metafore che riescano ad esprimere l’orrore e la disumanità della guerra.
Sempre da un punto di vista della scrittura autobiografica, Jutta Linder, sulla base di un’attenta lettura delle lettere e dei diari di Franz Kafka, sottolinea come l’autore praghese fosse tutt’altro che indifferente agli sconvolgimenti della guerra e del dopoguerra, ricordando tra le altre cose l’impegno di Kafka a favore degli invalidi di guerra e la sua nuova condizione di cittadino della Repubblica cecoslovacca.
La scrittura e l’ironia sono gli strumenti che anche Joseph Roth utilizza nei suoi primi romanzi per cercare di capire il prima e il dopo del fatidico anno 1918. Come nota Alessandra Schininà, il giornalista fattosi scrittore cerca di trovare, attraverso la creazione e l’intreccio di storie e personaggi tipici dell’Europa centro-orientale del dopoguerra, quelle coordinate che sfuggono nel caos di un’epoca di sospensione e accelerazione, di compresenza di opposti, in cui le vecchie certezze sono crollate e la democrazia repubblicana non riesce a prendere forma.
Del resto ancora oggi la letteratura può fungere da stimolo per affrontare e riportare alla luce questioni legate alla prima guerra mondiale che sono state trascurate dalla memoria storica. È il caso del genocidio degli armeni rievocato negli scritti di un’autrice contemporanea come Emine Sevgi Özdamar, analizzati da Silvia Palermo.
In definitiva, la varietà di contributi qui raccolti ci suggerisce che la fine del 1918 liberò una serie di opzioni in competizione tra loro e che da punti di vista spesso opposti e inconciliabili tentarono una risposta o un adattamento alla profonda crisi di autorità, di legittimazione, di valori, di idea di società che la grande guerra aveva scatenato. In verità una prospettiva la guerra l’aveva già data ed era quella insita nella crescita dell’intervento dello stato e della burocrazia nell’economia e nella società. Centralizzazione, organizzazione scientifica del lavoro, razionalizzazione, pianificazione, produttivismo ma anche maggiore controllo sui civili, censura, nuove forme di mobilitazione e propaganda di massa, furono tutti portati della nuova gestione statale che vide protagonisti settori della borghesia politica ed industriale e attirò non pochi esponenti della socialdemocrazia e del sindacato (protagonisti ne furono la Germania e l’ipotesi di “socialismo di stato”). Si preannunciava quella fase degli anni ’20 che lo storico Charles Maier ha definito “corporatismo” e che mirava a saltare la mediazione parlamentare tra gli interessi sociali, nel passaggio da una società agraria ad una compiutamente industriale e di massa.
In questo senso si è rivelato stimolante nel corso del convegno l’intervento tenuto da Francesco Saverio Festa (Il socialismo spiegato allo Stato maggiore dell’esercito austro-ungarico) dedicato a una conferenza tenuta da Max Weber il 13 giugno 1918 dinanzi a 300 ufficiali asburgici. Purtroppo Francesco Saverio ci ha lasciato prima della raccolta degli atti, ma vogliamo ricordare qui la sua persona e opera di appassionato studioso dell’Austria e rimandiamo, per le sue riflessioni sul tentativo del sociologo tedesco di conciliare le richieste della classe operaia con la difesa e l’organizzazione dello stato, all’Introduzione della sua traduzione di Max Weber, Il socialismo (Castelvecchi, Roma 2018).
Gli esempi presentati possono pertanto essere letti anche come reazioni o risposte al nuovo ruolo assunto dai poteri pubblici e dalla società di massa nella Grande Guerra. Tra chi aveva vissuto la guerra come un’esperienza di autoaffermazione personale e non riusciva e/o non voleva adattarsi alla democrazia rappresentativa, furono già parecchi quelli che perseguivano l’obiettivo di estremizzare il controllo dall’alto sulle masse, magari con una demagogia antiborghese, antisemita e nazionalista, che potesse supportare l’instaurazione di un regime dittatoriale di massa.
Ma dall’altro lato chi, devastato dall’esperienza bellica, sentiva l’esigenza di una rivolta morale e/o materiale vide nella fine del 1918 l’occasione per una rivoluzione dal basso che all’ansia anarchica e distruttiva del vecchio ordine aggiungesse l’anelito per una società più giusta, egalitaria e anticapitalistica capace di realizzarsi in forme concrete di democrazia diretta e, nelle versioni utopiche, una società transnazionale fondata sulla pace e la fratellanza. In quel frangente storico, il dissidio con chi invece riteneva ancora necessaria una rivoluzione democratica-borghese o semplicemente liberale assunse forme drammatiche e tali da segnare l’intero periodo postbellico. E del resto non mancò chi, sconvolto dalla violenza e dai sommovimenti della guerra, preferì chiudersi in sé stesso e rimpiangere l’ordine passato, nella speranza che la bufera passasse e che la conservazione ritornasse a trionfare sul caos e sulla modernità.
Tutte le opzioni in quei primi mesi postbellici restarono plausibili e realizzabili, e forse successivamente nessuna poté dirsi pienamente soddisfatta dei nuovi assetti ed equilibri raggiunti. L’irrinunciabilità dei propri presupposti ed obiettivi nei due decenni successivi fu anche all’origine di quell’estrema radicalizzazione ideologica e materiale che si impadronì dell’Europa centro-orientale e che contribuì ad una lettura a posteriori del 1918 in termini pessimisti o rivendicativi. Ciononostante, senza lasciarci troppo prendere dagli esiti catastrofici di quell’età, possiamo riconoscere, come ha scritto Eric Weitz (cit., pp. 14, 31), che “l’esperienza degli anni di guerra, pur con tutti gli orrori al fronte e la difficoltà della vita quotidiana nelle retrovie, ebbe un valore liberatorio per molte donne e uomini”. “La furia della guerra distrusse numerose convenzioni, sociali e artistiche” e proprio l’acuta percezione del carattere effimero della vita generò, ad esempio nella società weimariana, il “desiderio intenso di cogliere la vita nella totalità delle sue molteplici dimensioni”, i suoi entusiasmi inebrianti, la sua voglia di sperimentazione in campo artistico, la sua ostentazione della sessualità e delle relazioni non convenzionali, la sua energia vibrante. “La prorompente vitalità della cultura di Weimar, della sua musica, del suo teatro, del cinema e della fotografia, derivò la sua intensità dall’atto stesso della rivoluzione, dalla psicologia dell’impegno, dall’impeto dell’entusiasmo, dalla convinzione che le barriere erano state infrante e tutto era possibile”. E la stessa grande cultura dell’Austria fin de siècle, la sua Moderne, avrebbe potuto esprimersi per lungo tempo ancora.