Il dopoguerra postasburgico tra svolta e continuità

Giovanni Schininà
(Università degli Studi di Catania)

schinina@unict.it

 

Abstract

Der Zusammenbruch der Kaiserreiche in Zentraleuropa wird immer mehr von der Historiographie als privilegierter Ausgangspunkt für Überlegungen über die Kategorien von Staat, Nation, Minderheiten betrachtet. Der Beitrag analysiert die Übergangsphase vom ancien régime zu einer “Staatsbürgerliche Revolution”, d. h. einer bürgerlich-demokratischen Revolution. Die Protagonisten der Anfänge der Ersten Republik Österreich, Parteien, Länder und Bürokratie, brachten die Erfahrungen, die sie während der späten habsburgischen Zeit gesammelt hatten. Die Zäsuren der Jahre 1918-19 scheinen dabei mehr politischer und territorialer Natur zu sein, als die sozialen und wirtschaftlichen Beziehungen zu betreffen.

 

Al fine di presentare e problematizzare il dibattito storiografico su cosa significò e comportò nell’immediato dopoguerra la fine dell’Impero asburgico, può essere utile partire dalle differenti categorie del crollo, della rivoluzione e della trasformazione socio-economica.

Partendo da ciò che è assodato e incontestabile, il dato fondamentale è il collasso dell’impero multietnico austro-ungarico nel novembre 1918 in coincidenza con la sconfitta militare. Al suo posto si insediò, com’è noto, una serie di stati-nazionali nuovi (l’Austria, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia) o parzialmente nuovi, ossia frutto di ingrandimento di stati esistenti che accorparono territori ex-asburgici, come lo stato degli slavi del sud (poi Jugoslavia) o la Romania. Si trattò di una frattura storica e geografica epocale che, sanzionata di lì a breve dai trattati di pace, contraddistinse l’esperienza dell’Impero asburgico che non solo si dissolse come forma di stato ma si disgregò anche come territorio a differenza dell’Impero guglielmino che, pur con importanti decurtazioni territoriali, come l’Alsazia-Lorena, conservò il grosso del suo corpo territoriale nella nuova repubblica tedesca. Ciò avrà conseguenze importanti, anche psicologiche, soprattutto per le élite e gli abitanti dei due stati più penalizzati, l’Austria e l’Ungheria, essendo all’origine della profonda sfiducia nelle capacità economiche e diplomatiche nel primo caso, delle aspirazioni rivendicazioniste e delle contese etniche e di confine nel secondo caso.

Il tramonto dell’Impero asburgico, così come degli altri imperi plurinazionali, appare dunque contrassegnare la fine di un’epoca centenaria che, codificata inizialmente dal congresso di Vienna, ha visto fronteggiarsi due modelli di stato e di convivenza etnica tendenzialmente opposti e che, infine, con gli esiti della prima guerra mondiale ha sancito il trionfo dello stato nazionale, teoricamente fondato sull’omogeneità etnica e sul principio dell’autodeterminazione dei popoli. I governi dei paesi vincitori, dell’Intesa, e i governi dei nuovi stati sorti sulle ceneri della duplica monarchia (Cecoslovacchia, Polonia o Jugoslavia) imposero pertanto subito una lettura del passato che dipingeva l’Impero asburgico, anche quello di inizio ’900, nelle vesti di una “prigione dei popoli”, anacronistica, arretrata sia economicamente che politicamente e destinata all’inevitabile disfacimento. Tale narrazione ha condizionato a lungo l’impostazione prevalente della storiografia europea e secondo alcuni studiosi, come John Deák, ne risente la stessa attuale interpretazione complessiva della “grande guerra”, ancora restìa a riconoscere le più moderne acquisizioni e rivalutazioni dell’Impero asburgico, proposte da alcuni storici per lo più di matrice anglosassone1.

Alla valutazione del grado di discontinuità rappresentato dal 1918 è legato dunque il giudizio sulla natura intrinseca dell’Impero che a sua volta chiama in causa la vexata questio dei motivi del crollo della duplice monarchia. Nella spiegazione del tramonto, a chi ha sottolineato maggiormente i fattori di natura interna si è contrapposto chi ha enfatizzato invece i condizionamenti esterni nei confronti dello stato asburgico2. Nel primo caso la causa principale del crollo viene imputata al crescente conflitto tra le nazionalità e all’incapacità della dinastia asburgica di soddisfare le aspirazioni nazionali dei popoli sottoposti e di realizzare uno stato federale che ridimensionasse l’eccessivo predominio della componente austro-tedesca e di quella magiara. In tale contesto la prima guerra mondiale avrebbe solamente accelerato il lungo e inevitabile declino di una potenza costretta già da tempo sulla difensiva. Hanno condiviso l’idea di una dissoluzione annunciata dalle debolezze interne e dai dissidi interetnici anche quegli studiosi che, pur negando l’immagine di una “prigione dei popoli” e proponendo una lettura più raffinata ed equilibrata (Oskar Jaszi, Robert A. Kann, Solomon Wank), hanno valorizzato la forza inibitoria esercitata dalla rigida struttura imperiale, condensatasi nel compromesso austro-ungarico del 18673.

Sul versante opposto, quello delle cause esterne, vanno segnalati due filoni. Il primo, anch’esso di matrice anglosassone (si pensi a Alan J. P. Taylor fino al più recente Francis Roy Bridge), insistendo sul primato della politica estera, addita nel crescente appiattimento austro-ungarico sulle posizioni imperialistiche della Germania il fattore determinante del declino della potenza asburgica e della sua incapacità di salvezza. Tale appiattimento, avviatosi già dal 1866, si rese particolarmente evidente nel corso del 1918, quando l’affaire Sixtus, svelando le maldestre manovre dell’Imperatore Carlo rivolte ad ottenere una pace separata, sanzionò l’intima debolezza dell’Impero centrale e la sua dipendenza assoluta dalle sorti del più potente Impero guglielmino.

Il secondo filone, rifiutando la tesi teleologica basata sul declino inarrestabile e la centralità della questione nazionale, attribuisce invece la responsabilità primaria della dissoluzione alla politica delle potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti). Quest’ultime, pur di vincere la guerra ed evitare, nello stesso tempo, un’estensione del contagio rivoluzionario nell’Europa centrale, decisero di disgregare l’Impero asburgico, dando credito, negli ultimi mesi della guerra, ai politici in esilio delle etnie slave che peraltro si sarebbero convertiti all’idea dello sfascio dell’Impero solo alla fine e che comunque avevano rappresentato fino a quel momento soltanto una minoranza delle correnti politiche dei loro popoli. Storici come Alan Sked, Jean Berenger, Guy Hermet e, in forme estremizzate e polemiche, François Fejtö, hanno portato avanti in tempi più recenti questo tipo di lettura che è anche collegata alla rivalutazione, per certi aspetti nostalgica e conservatrice, della funzione stabilizzatrice che tradizionalmente aveva assolto l’Impero di casa Asburgo nell’Europa centro-orientale, quale baluardo protettore contro l’invadenza del Reich tedesco e dell’Impero zarista. Lo spezzarsi di questa secolare missione storica, fondamentale discontinuità col passato stabilita alla fine del 1918, viene considerata, in tale ottica, con rammarico di fronte all’espansionismo nazista degli anni ’30 e all’assoggettamento all’Unione sovietica nel secondo dopoguerra. Non dimentichiamo che anche una parte della diplomazia britannica guardò con favore, sia negli anni ’20 che dopo il 1945, a progetti di federazione o confederazione danubiana.

Uscendo in parte dalla diatriba tra cause esterne e interne del crollo dell’Austria-Ungheria, le ultime valutazioni storiografiche ridimensionano la tesi del lungo declino a cui seguirebbe l’inevitabile crollo e si è fatta strada al contrario, soprattutto tra gli storici revisionisti (come Gary Cohen, Pieter Judson, John Boyer, John Deák, Jeremy King), l’immagine di un crollo senza declino precedente. Avendo riabilitato lo stato asburgico dei primi anni del ’900 e la sua capacità di mediazione tra centro e periferia, tra istituzioni e società, tramite la concessione di autonomie e compromessi tra etnie contrastanti (Moravia, Bucovina), progetti riformatori (Koerber o Redlich) e l’ammodernamento dello stesso sistema politico, essi ritengono che ai fini del collasso finale fu determinante la scelta di scatenare la guerra mondiale. Fu questa improvvida decisione a interrompere un percorso riformatore avviato da una parte illuminata della burocrazia asburgica che fu scalzata dalle élite più reazionarie e dai vertici militari, i poteri dell’ancien régime, come argomentò qualche decennio fa lo storico Arno Mayer4.

Quest’ultimi furono peraltro responsabili di aver fatto precipitare il paese, nei primi anni di guerra, in una sorta di dittatura militare che, perseguitando le minoranze ritenute sospette, alienò allo stato gran parte delle popolazioni slave, rendendole infine disponibili alla secessione e consumando la lealtà di molti cittadini della stessa etnia austro-tedesca in virtù della disastrosa gestione dell’annona nelle grandi città5. Furono determinate decisioni e insieme condizioni oggettive, legate all’inferiorità degli imperi centrali rispetto alle potenze dell’Intesa sul piano delle risorse economiche e alimentari, a decretare la fine dell’Impero austro-ungarico, senza che ciò significhi che il collasso fosse da tempo inevitabile. Accanto alla sconfitta militare, che però fu evidente soltanto nell’ultimissima fase, sarebbe stata dunque l’implosione dello stato a decidere le sorti dell’Impero. Come ha dimostrato Paolo Macry, a crollare fu infatti per primo il centro, con le sue istituzioni, rispetto alla periferia. Secondo tale lettura la fine degli Asburgo maturò dapprima ed essenzialmente a Vienna, dove si sbriciolarono la credibilità e la legittimazione della casa regnante e delle autorità, e solo successivamente l’Impero si disintegrò nelle sue varie componenti6.

Se già la complessità dei fattori che condussero al crollo è di per sé sufficiente a rendere più problematico il paradigma con cui abbiamo avviato la nostra riflessione, vi è sicuramente, in aggiunta, un paradosso che smonta la tradizionale e superficiale visione del trionfo dello stato nazionale, considerato omogeneo e democratico, su un impero multinazionale considerato arretrato e oppressore delle sue etnie. È infatti ormai assodato dalla storiografia, qualunque sia il giudizio sulla natura degli imperi, che gli stati nazionali successori non soltanto non erano etnicamente omogenei come avrebbe preteso il principio wilsoniano a cui si ispiravano, e dunque erano in realtà come dei piccoli imperi plurinazionali, ma si comportavano molto spesso nei confronti delle minoranze peggio dell’Impero asburgico. In particolare la metà cisleitana della monarchia austro-ungarica aveva infatti usato la logica del divide et impera ma non aveva praticato la diseguaglianza giuridica o la nazionalizzazione forzata. Si può affermare, come sostengono Pieter Judson e Gerald Stourzh, che a prevalere nel tardo Impero asburgico era ancora una sorta di flessibilità nazionale (concetto più adatto che non quello di “indifferenza nazionale”), fondata sulle identità plurime. In ogni caso, segnatamente nella metà austriaca, esistevano istituzioni regolatrici del conflitto che impedivano il prevaricare di un gruppo sull’altro7.

Tutto ciò rafforza l’ipotesi secondo cui sia stata la prima guerra mondiale a radicalizzare e rendere più diffusa la demarcazione su linee etniche, contrassegnandone una più spiccata connotazione razziale. Sintomatico in tal senso fu il caso della reazione suscitata dall’imponente presenza a Vienna di migliaia di ebrei poveri, profughi, evacuati dalla Galizia a seguito degli insuccessi nel fronte orientale, che avrebbe messo in moto i meccanismi tipici del capro espiatorio per la sconfitta e le sofferenze patite dai civili nell’ultima fase della guerra. L’antisemitismo in continuità com’è noto con una lunga e radicata tradizione, si pensi al movimento di Schönerer e all’uso propagandistico fattone dal sindaco cristiano-sociale di Vienna, Karl Lueger, vivrebbe dunque, sul finire del conflitto, un’accentuazione dei toni e una sua estensione sociale, che sarebbero rimaste quali pesanti eredità nella travagliata esperienza postbellica.

Vanno, a tale proposito, citati altri due aspetti, due filoni attuali della ricerca, che rendono più articolato il discorso sulla continuità o discontinuità dello spartiacque 1918 nella dimensione comparata tra stati, nazioni, guerra e pace. Il primo dei due filoni, di cui è esponente principale Robert Gerwarth, contesta il fatto che con il 1918 si sia realmente concluso il conflitto mondiale. Fino al 1923 nei paesi sconfitti, sui territori degli imperi vinti, si perpetuò infatti una situazione caotica, nutrita di violenza militare, etnica e politica, che scaturiva da tentativi rivoluzionari, guerre civili, conflitti interstatali di frontiera, stragi di civili o spostamenti forzati di popolazioni che produssero 4 milioni di vittime e un’instabilità permanente8. Al di là della brutalizzazione prodotta dall’esperienza della guerra di trincea secondo tale tesi sarebbe stato determinante il modo con cui finì o meglio non finì la guerra mondiale nell’Europa centro-orientale, in una miscela di disfatta militare, crollo di imperi e rivoluzioni sociali o nazionali.

La peculiarità dei nuovi stati nazionali rispetto agli imperi precedenti consisterebbe dunque essenzialmente nelle dimensioni territoriali più ridotte e nel capovolgimento delle gerarchie nazionali, con l’aggravante che il monopolio della forza legittima degli eserciti statuali passò spesso nelle mani di milizie politiche e formazioni paramilitari, il cui riferimento ideale obbediva a logiche legate alla nazione o alla classe sociale, già rivolte potenzialmente al genocidio. Sebbene esauritasi nel 1923, questa ondata di violenza lasciò in eredità all’Europa centro-orientale una diffusa propensione al revanchismo territoriale e al tema del “ritorno alla patria” di gruppi etnici rimasti al di fuori dei propri confini.

La condivisione di una simile sorte anche nei territori extraeuropei dell’ex Impero ottomano ci conduce all’altro filone attuale di ricerca (sviluppato da storici come Marc Mazower, Eric Weitz, Erez Manela e lo stesso Judson) che collega, in una visione di storia globale, il principio di autodeterminazione dei popoli alla nuova diplomazia che si affermò a partire dal 19189. Non sempre è ricordato sufficientemente che in realtà il principio di autodeterminazione dei popoli lanciato dal presidente americano Wilson fu preceduto da un’analoga definizione che Lenin coniò nel 1917, estendendo il proposito di una rivoluzione europea alla liberazione dei popoli extraeuropei sottomessi all’imperialismo colonizzatore delle potenze occidentali. Nella sfida mondiale tra le due interpretazioni contrapposte di uno stesso principio, rivolte rispettivamente alla stabilizzazione del continente europeo nel caso del wilsonismo, a trasformare l’insofferenza o l’aperta rivolta del proletariato combattente nella “grande guerra” in una rivoluzione mondiale socialista nell’ipotesi bolscevica, la sconfitta e soprattutto la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico giocarono un ruolo assolutamente centrale.

Nell’ambito della risistemazione dell’Europa centro-orientale il collasso asburgico costrinse infatti la diplomazia delle potenze occidentali vincitrici ad uscire dalla vaghezza e astrattezza della prima formulazione dei principi di autodeterminazione e di una nuova politica estera fondata su pace, trasparenza e consenso dei popoli. Mentre nel Medioriente ex-ottomano si inventarono i cosiddetti mandati internazionali, nell’Europa centro-orientale, per impedire la diffusione del bolscevismo, si preferì mantenere la scomposizione in una serie di stati nazionali basati su costituzioni liberaldemocratiche e vincolati dall’attuazione della tutela delle minoranze etniche interne, garantita dalla neonata Società delle Nazioni10.

In sintesi, possiamo dunque affermare che il crollo degli imperi centrali, sul piano storiografico, è sempre più laboratorio di comparazione che investe in prima battuta la questione dello stato, della nazione, degli imperi e delle minoranze etniche, senza slegarla tuttavia dalle tematiche relative alla rivoluzione politica e sociale. E indubbiamente le categorie di rivoluzione e trasformazione hanno rappresentato e continuano a rappresentare un modo per problematizzare quantità e qualità della svolta avviata dalla cesura del 1918-19.

In un discorso pronunciato a guerra finita il leader del nuovo stato cecoslovacco Thomas Masaryk stabilì un nesso inscindibile tra l’autodeterminazione dei popoli, lo stato nazionale e la democrazia. Seppure non fosse scontato, la forma prescelta per gli stati completamente nuovi (Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia) fu la repubblica, formula che poteva mettere insieme liberali, democratici e socialisti, in contrapposizione alla monarchia, che fosse interpretata come “prigione dei popoli” o simbolo delegittimato dell’ancien régime11. Non vi è dubbio che l’instaurazione di repubbliche al posto della monarchia significò una rottura istituzionale fondamentale, sebbene le forze tradizionaliste che avevano sostenuto l’impero, un po’ ovunque l’accettarono solo giocoforza, identificandola con democrazia e sconvolgimento delle gerarchie sociali, in attesa di una rivincita. L’ultimo Kaiser, Carlo I, nella dichiarazione dell’11 novembre 1918 in cui rinunciava espressamente ad una partecipazione agli affari di stato e riconosceva la decisione che l’Austria tedesca avrebbe preso sulla forma di stato futuro, evitava una formula ufficiale di abdicazione. Ciò gli permise di coltivare la speranza di poter in qualche modo ritornare sul trono ma, nella sostanza, questa ipotesi trovò negli anni successivi qualche possibilità di realizzazione solamente in Ungheria, mentre nella repubblica austriaca una legge specifica, l’Habsburgergesetz, avrebbe presto fissato rigidi paletti, con un consenso oltremodo maggioritario.

Con la fine della guerra il partito socialdemocratico austriaco abbandonò infatti con decisione la precedente adesione in senso riformatore e federalista alla monarchia asburgica e si schierò duramente contro la dinastia, accusata di aver avallato l’assolutismo militare nei primi anni della guerra mondiale e di avere ridotto alla fame la popolazione civile. Il riorientamento contro la dinastia che incarnava la “cattiva” e “immorale” Austria, preparato già dalla formidabile arringa processuale di difesa di Friedrich Adler, che aveva assassinato alla fine del 1916 il cancelliere Stürgkh, permise di motivare la politica favorevole all’Anschluß alla repubblica tedesca a guida socialdemocratica, perseguita dal ministro degli esteri della neonata repubblica austro-tedesca, Otto Bauer.

L’“Abschied von Österreich” (così aveva titolato già il 23 ottobre 1918 un giornale liberale salisburghese), che si diffuse anche tra le masse socialdemocratiche, poté da un lato giustificare una prima versione della “Opferthese”, che tendeva ad addossare le responsabilità della guerra all’Austria asburgica e non alla nuova repubblica austro-tedesca, considerata da Kelsen come uno stato successore al pari degli altri. Dall’altro lato la “Flucht aus Österreich“, la fuga dall’Austria, rispecchiava anche il panico e la sfiducia verso la capacità di sopravvivenza di uno stato ormai dalle dimensioni assai ridotte12. Mentre i tedesco-nazionali, da sempre favorevoli al pangermanesimo, nel crollo dell’Impero videro coronata la loro ostilità verso gli Asburgo, gli stessi cristiano-sociali inizialmente assai più riluttanti ad accettare la svolta repubblicana, non cavalcarono seriamente l’opzione restauratrice o almeno la utilizzeranno ambiguamente negli anni ’30 in forme strumentali alla difesa dell’indipendenza della Prima repubblica nei confronti della Germania nazionalsocialista.

Sul piano politico e istituzionale la frattura del primo dopoguerra fu poi sanzionata dal varo di costituzioni democratiche che prevedevano sistemi politici basati sul pluripartitismo, il suffragio universale, la legge proporzionale, il voto alle donne. Otto Bauer, leader e teorico, insieme a Karl Renner, del partito socialdemocratico austriaco, avrebbe successivamente definito questo passaggio storico, nel caso austriaco, come una Revolution, articolata in diverse fasi e, in quanto differente da quella bolscevica, in grado di evitare i rischi dittatoriali e l’esito fallimentare delle Räterepubliken ungherese e bavarese13. Nell’interpretazione di Bauer, autore nel 1923 di una storia sociale e transnazionale (Die österreichische Revolution), attenta al ruolo delle strutture più che dei singoli individui, il crollo dell’impero zarista aveva reso assai meno giustificabile il mantenimento dell’impero multinazionale asburgico, in funzione di baluardo, aprendo la strada alla sua disgregazione territoriale e ad una prima fase definibile di “rivoluzione nazionale”.

Quest’ultima caratterizzò pienamente l’esperienza di cechi, polacchi e slavi del sud ma non poté svilupparsi in Austria e in Ungheria soprattutto per i vincoli posti dalle potenze vincitrici dell’Intesa, ostili alle propensioni di unificazione con la Germania e alle rivendicazioni territoriali. In Austria, tuttavia, tra l’ottobre 1918 e il febbraio 1919 fu possibile realizzare una “rivoluzione politica”, dotata di ampi consensi tra i partiti e i ceti sociali, guidata dal partito socialdemocratico e da Renner, uomo dei compromessi, in una coalizione di governo nazionale con cristiano-sociali e tedesco-nazionali. Come sostenne lo stesso Bauer, essa ebbe già nella prima fase, durata all’incirca fino al febbraio 1919, i caratteri di una “Staatsbürgerliche Revolution”, una rivoluzione democratico-borghese, essenzialmente politica, che insediò la sede centrale del potere nel parlamento, ovvero nei partiti politici, ottenendo il sostegno dei rappresentanti delle diverse fasce sociali e realizzando dunque il compromesso tra operai, contadini e borghesia.

Tale rivoluzione politica dall’alto fu dunque guidata dalla socialdemocrazia che, anche grazie alla retorica marxista e alla promessa di una prossima vittoria elettorale quale garanzia dell’attuazione del socialismo, riuscì a conservare il consenso della maggioranza degli operai e dei soldati, che pure in Austria si erano riuniti in organismi consiliari paralleli e potenzialmente alternativi al governo provvisorio14.

La sconfitta militare e lo smantellamento dell’esercito imperiale, lasciando le armi nelle mani del proletariato e dei reduci a Vienna e Budapest, in una situazione di elevata disoccupazione, avevano in effetti creato, nella prima metà del 1919, uno spazio per la rivoluzione sociale che mentre in Ungheria sfociò nell’esperimento sovietico di Bela Kun, nella repubblica austriaca venne incanalata dal partito socialdemocratico, attraverso un’abile gestione dei consigli dei soldati, una serie di compromessi con i vecchi poteri ma anche l’avvio di politiche sociali. Nella fase di cosiddetta “rivoluzione sociale”, che caratterizzò la prima metà del 1919, fu effettivamente varata una serie di riforme (giornata lavorativa di 8 ore, legge sui consigli aziendali, sussidi per la disoccupazione) che insieme ad interventi laicizzanti, all’abolizione della pena di morte e dei privilegi nobiliari, allo scioglimento dell’esercito imperiale, sostituito da una milizia popolare, e all’inglobamento in funzione stabilizzatrice dei consigli dei soldati, permise al governo a guida socialista di avviare un processo di defeudalizzazione ed una spinta verso l’eguaglianza e l’erosione delle vecchie gerarchie.

A giustificazione dell’operato socialdemocratico, Bauer, sia all’epoca che in chiave retrospettiva, sottolineò la presenza di condizioni che rendevano impossibile in Austria una rivoluzione sul modello sovietico, proposta dai comunisti e dalle guardie rosse locali (dipendenza alimentare, sicuro intervento repressivo delle truppe dell’Intesa, strenua opposizione e sabotaggio dei contadini, tutti fattori che avrebbero prodotto una guerra civile e il fallimento del tentativo)15. In tale lettura, dall’agosto del 1919 fino all’autunno del 1920, le tensioni rivoluzionarie si spensero mentre lo slancio riformista, sebbene più contrastato, sarebbe rimasto. La prospettiva socialista veniva recuperata, nell’ottica e nella stessa azione baueriana, dall’uso della forza del movimento operaio e della minaccia rivoluzionaria per conquistare gradualmente posizioni di potere nello stato, nei comuni, nelle fabbriche, nelle caserme. La ricerca di una terza via tra riformismo e bolscevismo (il vero dilemma dell’austromarxismo degli anni ’20) si condensò nella formazione della cosiddetta Internazionale di Vienna (distinta dalla internazionale riformista e dalla Terza internazionale comunista).

Ma se la narrazione socialista, come osserva Botz, servì a consolidare il proprio milieu sociale di riferimento essa non riuscì a conquistare l’egemonia culturale in tutta l’Austria, impaurendo peraltro le forze dei vecchi ceti dirigenti e della borghesia, che, riorganizzatesi e ricompattatesi già dal 1920 sotto la guida di Ignaz Seipel, interpretarono anch’esse, seppure con una lettura di segno opposto, gli eventi del 1918-19 come una rivoluzione sociale, da smantellare pezzo a pezzo.

Non a caso, l’aristocrazia, gli agrari, la Chiesa e i militari (che non poterono sviluppare una leggenda efficace come quella weimariana della “pugnalata alla schiena”) avrebbero vissuto gli anni dell’austrofascismo dal 1934 al 1938 anche come una rivincita nei confronti di queste trasformazioni attuate nell’immediato dopoguerra16. Ovviamente, come la storiografia ha constatato, con maggiore forza e più rapidamente, se si esclude la Cecoslovacchia, ben presto anche negli stati successori dell’Europa centro-orientale, a partire dall’Ungheria di Horthy fino alla Polonia, alla Jugoslavia, alla Romania, le forze del vecchio regime riuscirono a coalizzarsi per vanificare o limitare le riforme politiche democratiche e le riforme agrarie attuate. Le leggi e le politiche sociali, indubbiamente un fattore di discontinuità rispetto al passato, risultarono pertanto fragili e destinate ad essere ripudiate.

Da quando apparve il testo di Bauer e fino ad oggi, la storiografia si è dunque interrogata sul significato sostanziale della svolta del 1918-19. Fu vera rivoluzione o piuttosto, com’è stato detto, una Inszenierung des Bruches, una messa in scena della frattura? Secondo alcuni si trattò di una “mezza” rivoluzione, sicuramente differente da quella russa ma anche da quella tedesca, come confermato dall’assenza di insurrezioni di massa o di violente ed efficaci azioni di abbattimento delle strutture statali17. Come visto prima, in effetti, il crollo dell’impero ebbe varie motivazioni ma non fu causato da una rivoluzione di massa. Se si escludono gli scioperi degli inizi del 1918, alcune concitate scene sulle rampe del parlamento in occasione della proclamazione della repubblica il 12 novembre, e due tentativi comunisti che provocarono nell’aprile e giugno 1919 un certo numero di vittime, si può dire che la transizione in Austria fu concordata tra vecchi e nuovi poteri e relativamente pacifica18.

Nel complesso, la storiografia attuale condivide ancora l’assunto che le cesure evidenziatesi a partire dalla fine del 1918 nell’area asburgica furono più di carattere politico e territoriale che non relative ai rapporti di produzione e di proprietà, alle strutture socio-economiche, a parte ovviamente la non trascurabile rottura e frammentazione, in termini macroeconomici e commerciali, della grande area di mercato nello spazio danubiano19. Anche nell’ambito di tale impostazione, il passaggio graduale e istituzionalmente ordinato da un regime all’altro ha tuttavia suggerito di non trascurare quegli elementi di continuità che, ad esempio Ernst Hanisch, riferendosi al caso austriaco ha individuato nel ruolo o quanto meno nella forma dei partiti politici, nel protagonismo dei Länder, delle regioni e nella stessa sopravvivenza degli apparati burocratici.

È stato rilevato, in tal senso, che la continuità nell’ambito legislativo, sia in senso organizzativo che personale, grazie all’esperienza nelle istituzioni parlamentari e rappresentative della tarda monarchia asburgica, abbia permesso con largo consenso l’affermazione rapida di una repubblica parlamentare dotata di efficaci regole e legislazione, in grado di assorbire prima e meglio di altri paesi i potenziali rivoluzionari o forme alternative, consiliari20. Non è un caso che tale transizione sia stata possibile grazie alla continuità tra la vecchia Camera dei deputati, eletta nel 1911 e l’Assemblea nazionale costituente dell’ottobre 1918 e non sorprenda che la maggior parte degli eletti del parlamento uscito dalle elezioni dell’ottobre 1920 fosse ancora costituita da ex membri dei parlamenti dell’età asburgica21. Come avrebbe affermato un commentatore coevo, Adolf Merkl, nel 1918 “un troncone del parlamento del vecchio Stato divenne rappresentante della Rivoluzione, e – circostanza abbastanza singolare – diede vita al nuovo Stato con una semplice deliberazione”22.

Sulla scia della rivalutazione storiografica delle ultime decadi dell’Impero austro-ungarico, alcuni storici hanno cercato pertanto di proporre periodizzazioni differenti e di più lungo periodo. È il caso ad esempio di John Boyer che ha insistito sull’importanza spartiacque della riforma elettorale del 1907, l’introduzione del suffragio universale maschile nella Cisleitania, a dimostrazione che già prima del conflitto mondiale la fine del parlamento su base cetuale e censitaria, la maggiore partecipazione dei cittadini, la crescita delle organizzazioni di massa, come sindacati e partiti, la mobilitazione ideologica, inaugurarono il modello del sistema politico tipico del Novecento23. Insieme a quella mentalità che sarebbe stata definita dei tre lager politici costruiti attorno a dei milieus socio-culturali nettamente separati e contrapposti, la presenza di una forte coscienza legata al Land di appartenenza e quelle forme di decentramento amministrativo e di cooperazione reciproca tra le regioni già sperimentate negli ultimi scorci dell’età asburgica, costituirono un elemento di continuità della I Republik, rispetto alle ultime decadi dell’Impero, anche come riserva identitaria a fronte del vuoto determinato dal crollo del tradizionale riferimento dinastico e statuale24.

Fu merito della classe politica austriaca se quest’eredità confluì nel nuovo stato, impedendo che si affermassero le pur forti spinte localistiche e separatistiche, favorevoli ad un’annessione alla Germania o perfino alla Svizzera, che si erano espresse ad esempio in una prima fase nei referendum svoltisi nel Tirolo, nel Salisburghese e nel Vorarlberg. Ma, com’è noto, la frattura tra città e campagna, tra la capitale e le province schierate contro la Vienna moderna, liberale e “rossa”, rimase una componente essenziale del nuovo stato.

Dunque la repubblica austriaca si instaurò con un tocco di federalismo, anche perché essenzialmente assai più omogenea etnicamente, se si escludono alcune situazioni di confine, rispetto agli altri stati nazionali dell’Europa centro-orientale, che optarono per il centralismo unitario proprio per contrastare l’alto rischio di movimenti etnici, autonomisti e separatisti. Più in generale, infine, la storiografia più recente, compresa quella di stati come la Repubblica ceca, ha riconosciuto, quale ulteriore elemento di continuità, la persistenza dell’apparato burocratico asburgico in termini di personale, di ordinamenti giuridici, codici e procedimenti amministrativi25. In tal senso per i funzionari pubblici così come per le élite dei partiti politici il 1918 non rappresentò quasi mai una reale rottura nei loro percorsi di carriera rispetto al recente passato della monarchia asburgica26, sebbene la formazione di stati completamente nuovi e indipendenti come la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, la Polonia rispetto alle repubbliche austriaca e ungherese aprì indubbiamente una serie di opportunità inedite, nella moltiplicazione di apparati e funzioni, a vantaggio di nuovi ceti dirigenti e attivisti, premiati per la loro militanza di fine guerra nelle file di quel nazionalismo radicale che lo storico Hermet ha definito “arrivista”27. Nel caso austriaco segni di discontinuità vanno semmai rintracciati nella decadenza economica di settori dei ceti medi, impiegatizi o della stessa alta borghesia, a causa dell’elevata inflazione, che arricchì per converso, durante la guerra e l’immediato dopoguerra, avventurieri, speculatori e squali della borsa e del mercato nero, mentre la disoccupazione postbellica colpì masse di reduci e di ufficiali, a seguito dei ridimensionamenti imposti dalle potenze vincitrici28.

In conclusione, possiamo dunque affermare che, se si sceglie una prospettiva di lungo periodo, come ha affermato di recente lo storico austriaco Hannes Leidinger, l’epoca imperiale, quanto meno la sua ultima fase non si differenzia troppo dall’epoca repubblicana29. La Fin de siecle, che non a caso è definita anche col termine di Moderne conterrebbe in sé già le problematiche tipiche novecentesche e in gran parte le sue stesse contraddizioni. Di conseguenza, la prima guerra mondiale e i suoi esiti potrebbero essere interpretati come tappe o anche come delle cesure che, in gran parte, più che inventare selezionano, accelerano, radicalizzano o polarizzano tendenze, condizioni, risposte preesistenti, già orientate alla “modernizzazione”.

Insomma il dibattito storiografico sul tracollo dell’Impero asburgico e le sue conseguenze continua ad essere ancora oggi vivace e controverso. Di certo l’Impero asburgico lasciò in eredità all’immediato dopoguerra una serie di conflitti sociali, di nodi irrisolti e anche di possibili soluzioni. Alcuni di questi temi, a cent’anni di distanza, sono rimasti o sono tornati di stringente attualità, e riguardano direttamente la sfida posta dalla convivenza multietnica e multiculturale, la tensione tra la dimensione sovranazionale e quella nazionale o locale, e il peso degli schemi identitari, specialmente in tempi di crisi, nella lotta e nella propaganda politica.

 


1 J. Deák, The Great War and the Forgotten Realm. The Habsburg Monarchy and the First World War, in «The Journal of Modern History», 86, 2014, pp. 336-380. Per le nuove interpretazioni, oltre agli scritti di J. Boyer e G. B. Cohen, cfr. la sintesi generale più recente di P. M. Judson (Habsburg. Geschichte eines Imperiums (1740-1918), C. H. Beck, München 2017) e, in merito allo stato asburgico, J. Deák, Forging a multinational state: state making in imperial Austria from the Enlightenment to the First World War, Stanford University Press, Stanford 2015. Per un’aggiornata rassegna storiografica cfr. U. Harmat, Untergang, Auflösung, Zerstörung der Habsburgermonarchie? Zeitgenössische Bedingungen der Erinnerung und Historiographie, in H. Rumpler, U. Harmat (a cura di), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, vol. XII, Bewältigte Vergangenheit? Die Nationale und Internationale Historiographie zur Untergang der Habsburgermonarchie als ideelle Grundlage für die Neuordnung Europas, Akademie der Wissenschaften, Wien 2018, pp. 49-95.

2 Per alcuni spunti di riflessione rinvio al capitolo intitolato Il crollo finale dell’Impero asburgico: motivi e interpretazioni del mio volume L’Austria contemporanea tra crisi e trasformazione, Artemide, Roma 2013, pp. 107-132. Si veda anche M. Cattaruzza, Das Ende Österreich-Ungarns im Ersten Weltkrieg. Akteure, Öffentlichkeit, Kontingenzen, in “Historische Zeitschrift”, b. 308, 2019, pp. 81-107.

3 Si inserisce nello stesso filone la versione di Leo Valiani che però ha riconosciuto anche il significato periodizzante costituito, nel corso dell’ultimo anno del conflitto mondiale, dalla svolta nella politica dell’Intesa, pronta a giocare la carta delle nazionalità oppresse per individuare il punto debole dell’avversario e così sconfiggerlo. Si veda anche H. Rumpler, H. Heppner, E. A. Schmied (a cura di), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, vol. XI., Die Habsburgermonarchie und der Erste Weltkrieg, Akademie der Wissenschaften, Wien 2016, in particolare il volume II.

4 A. Mayer, Il potere dell’ancien régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1982.

5 John Boyer, ad esempio, appoggiandosi sugli studi di Maureen Healy ha parlato di una “guerra silenziosa” contro i cittadini. Cfr. J. W. Boyer, Silent War and Bitter Peace. The Revolution of 1918 in Austria, in «Austrian History Yearbook», 34, 2003, pp. 1-56 e M. Healy, Vienna and the Fall of the Habsburg Empire. Total War and Everyday Life in World War I, Cambridge University Press, Cambridge, Mass. 2004.

6 P. Macry, Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009. Qui si afferma a p. 50: “In gran parte dell’Europa centro-orientale le discontinuità istituzionali appaiono storicamente come un fenomeno di disfacimento politico-burocratico”.

7 U. Harmat, cit., pp. 91ss.

8 R. Gerwarth, Die Besiegten. Das blutige Erbe des Ersten Weltkrieg, Siedler Verlag, München 2017.

9 P. M. Judson, ‘Wilson versus Lenin’. The New Diplomacy and Global Echoes of Austria-Hungary’s Dissolution, in P. Rumpler, U. Harmat, cit., pp. 385-395.

10 Il fatto che, a differenza degli ancora “immaturi” stati dell’Europa orientale, gli imperi coloniali fossero nei fatti esentati da una corrispondente tutela delle minoranze, nei confronti dei popoli sottoposti, avrebbe poi fornito ai dirigenti sovietici così come ai governi dei nuovi stati successori il pretesto per accusare le potenze occidentali, in primis Gran Bretagna e Francia, di doppiezza e ipocrisia. Cfr. in proposito M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2005, pp. 53 ss e E. Goldstein, Gli accordi di pace dopo la Grande guerra (1919-25), Il Mulino, Bologna 2005, pp. 53-56.

11 La proclamazione della repubblica cecoslovacca, avvenuta il 28 ottobre (formalizzata il 14 novembre dall’assemblea nazionale) precedette addirittura l’armistizio del 3 novembre, data in cui si proclamò la repubblica polacca. L’avvento della repubblica austro-tedesca (12 novembre) e di quella ungherese (16 novembre) seguirono immediatamente la rinuncia dell’imperatore Carlo (11 novembre). Laddove, come nella futura Jugoslavia, si formò un nuovo stato come associazione di territori ex asburgici con uno stato preesistente (la Serbia) alleato dell’Intesa, si mantenne la dinastia (fu il caso del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, proclamato il 1 dicembre).

12 E. Hanisch, Auf der Suche nach der österreichischen Identität, in H. Rumpler, U. Harmat (a cura di), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, vol. XII, Bewältigte Vergangenheit…,cit., pp. 154-155, e per il caso Adler, R. Ardelt, Der Prozeß gegen Friedrich Adler, in K. Stadler (a cura di), Sozialistenprozesse. Politische Justiz in Österreich 1870-1936, Europa Verlag, Wien 1986, pp. 181-232. Sulla cultura politica e la Flucht aus der Republik, declinata nelle sue differenti prospettive partitiche, cfr. A. Pelinka, Die gescheiterte Republik. Kultur und Politik in Österreich 1918-1938, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2017. Sul tema dell’identità nazionale mi permetto di rinviare all’articolo G. Schininà, Costruzioni e rielaborazioni identitarie nell’Austria repubblicana, in “Giornale di storia contemporanea”, XXII, n. 2, 2018, pp. 57-76.

13 E. Hanisch, Der große Illusionist. Otto Bauer (1881-1938), Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2011, pp. 143 ss.

14 H. Hautmann, Geschichte der Rätebewegung in Österreich 1918-1924, Wien 1987. V. Moritz (Transnationale Politik im nationalen Raum. Die Kommunistische Internationale in Österreich 1918/19 bis 1924/25, in “Zeitgeschichte”, 2014/6, pp. 384 ss) invita a non sottovalutare, nonostante il fallimento di tentativi rivoluzionari sovietici in Austria, l’interesse che Mosca mantenne per Vienna come base operativa di attività segrete e piani rivoluzionari nell’Europa centrale e balcanica. Si vedano inoltre sul tema F. Carsten, Revolution in Mitteleuropa 1918-1919, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1973, W. Maderthaner Die eigenartige Größe der Beschränkung. Österreichs Revolution im mitteleuropäischen Spannungsfeld, in H. Konrad, W. Maderthaner, Das Werden der Ersten Republik…der Rest ist Österreich, I, Carl Gerold’s Sohn, Wien 2008, b. I, pp. 187-206.

15 G. Botz, Die ‘Österreichische Revolution’ 1918/19. Zu Kontexten und Problematik einer alten Meistererzählung der Zeitgeschichte in Österreich, in “Zeitgeschichte”, 2014/6, pp. 365 ss.

16 Cfr. in proposito gli spunti di H. Leidinger, V. Moritz, Die Republik Österreich 1918/2008. Überblick, Zwischenbilanz, Neubewertung, Zsolnay, Wien 2008, pp. 164 ss. È del resto vero che l’abolizione dei titoli nobiliari aveva penalizzato più i livelli bassi dell’aristocrazia meno ricchi, mentre i grandi possidenti non avevano subito espropri (cfr. in proposito G. Schöpfer, Umbrüche und Kontinuitäten. Politische Wechsellagen und Karriereverläufe in Österreich nach 1918 – eine unvollständige Gedankenskizze, in S. Karner, L. Mikoletzky (a cura di), Österreich. 90 Jahre Republik, Studienverlag, Innsbruck-Wien-Bozen 2008, pp. 331-343).

17 Mentre G. Botz (cit., p. 380) parla di una “mezza rivoluzione” perchè il successo fu relativo e solo parzialmente e a tratti vi fu rivoluzione sociale, E. Hanisch (Der lange Schatten des Staates. Österreichische Gesellschaftsgeschichte im 20. Jahrhundert, Ueberreuter, Wien 2005, pp. 263 ss) che pure parte dall’espressione Inszenierung eines Bruches parla anche di rivoluzione politica e sociale, per concludere, più recentemente, che si può definirla una “staatsbürgerliche Revolution” (Auf der Suche nach der österreichischen Identität, cit., p. 150).

18 Sulla sostanziale e sorprendente stabilità del nuovo stato per capacità di integrazione, legittimazione democratica e perfino una certa identificazione, nel primo biennio, insiste Hanns Haas (Ein verfehlter Start? Die Anfänge Österreichs 1918 bis 1920, in “Zeitgeschichte”, 2014/6, pp. 371-383), che cita, tra i fattori determinanti, gli aiuti alimentari promossi dall’Intesa e i primi programmi governativi contro la disoccupazione. Cfr. anche A. Pfoser, A. Weigl, Die erste Stunde Null. Gründungsjahre der österreichischen Republik 1918-1922, Residenz Verlag, Salzburg-Wien 2017 e N. C. Wolf, Revolution in Wien. Die literarische Intelligenz im politischen Umbruch 1918/19, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2018.

19 H. Leidinger, Der Untergang der Habsburgermonarchie, Haymon, Innsbruck-Wien, 2017, pp. 328 ss, H. Konrad, “Die Bruchlinie 1918” – eine Einleitung, in S. Karner, G. Botz, H. Konrad (a cura di), Epochenbrüche im 20. Jahrhundert. Beiträge, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2017.

20 H. Widder, Verfassungsrechtliche Kontrollen in der Ersten Republik, in E. Talos, H. Dachs, E. Hanisch, A. Staudinger, Handbuch des politischen Systems Österreichs. Erste Republik 1918-1933, Manz, Wien 1995, pp. 105-122.

21 “Così, nella fondazione della Repubblica e nella redazione e nell’esercizio della sua provvisoria e poi definitiva costituzione, fu disponibile un gran numero di personalità di ogni campo politico, che, in quanto esperti parlamentari, competenti sia nella legislazione che nell’amministrazione, poterono assumere la guida e la responsabilità del nuovo stato, quale nuova élite politica, quasi senza fratture” (ivi, p. 106).

22 Ivi, p. 105.

23 J. W. Boyer, Power, Partisanship, and the Grid of Democratic Politics. 1907 as the Pivot Point of Modern Austrian History, in «Austrian History Yearbook», 44, 2013, pp. 148-174.

24 J. Osterkamp, Ein Reich ohne Eigenschaften? Das Erbe föderaler Ideen in den “Nachfolgestaaten” der Habsburgermonarchie, in H. Rumpler, U. Harmat, cit., pp. 413-457. Cfr. anche S. Karner (a cura di), Die umkämpfte Republik. Österreich 1918-1938, Studien Verlag, Innsbruck 2017, pp. 9-13,

25 Sulle nuove prospettive storiografiche ceche cfr. ad esempio O. Konrad, Von der Kulisse der Nationalstaatsgründung zur Europäisierung der Forschung. Die Tschechische Historiographie zum Ersten Weltkrieg, in H. Rumpler, U. Harmat (a cura di), cit., pp. 222-226. Cfr. anche P. Judson, Habsburg. Geschichte eines Imperiums…, cit. pp. 555-556.

26Per l’Austria vedi gli spunti di G. Schöpfer, cit. e, in merito alla burocrazia, W. Heindl, Bürokratie und Beamte, in E. Talos, H. Dachs, E. Hanisch, A. Staudinger, Handbuch des politischen Systems Österreichs. Erste Republik 1918-1933, Manz, Wien 1995, pp. 90-104.

27 G. Hermet, Nazioni e nazionalismi in Europa, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 196 ss.

28È pur vero che, se l’ordine fissato a St. Germain e i successivi vincoli di risanamento sembrarono attestare inizialmente l’osservazione di Bauer che individuava nella borghesia la vera sconfitta della guerra (per la stagnazione industriale, la perdita di status, l’impoverimento di rentiers e proprietari di immobili e il licenziamento di grosse fette di funzionari statali), i ceti borghesi riuscirono anche a riprendersi, quanto meno nello stile di vita e nel capitale culturale. A pesare sul fallimento finale della democrazia parlamentare fu piuttosto, secondo Hanisch, l’assenza di una forza politica ampia e unificata del liberalismo democratico che facesse da cuscinetto alla radicalizzazione paramilitare dei fronti contrapposti di destra e di sinistra. Cfr. in proposito, gli spunti di E. Hanisch, Auf der Suche nach der österreichischen Identität…, cit., p. 153 e, in merito ai nuovi ricchi D. Stiefel, Camillo Castiglioni oder der Metaphysik der Haifische, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2012.

29H. Leidinger, Der Untergang…, cit., p. 329. Cfr. anche C. Moos, Habsburg post mortem. Betrachtungen zum Weiterleben der Habsburgermonarchie, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2016.