“Wir sind doch Menschen!”
Ancora sull’ annunciazione degli espressionisti

Giusi Zanasi
(Università degli Studi di Napoli L’Orientale)
giusi.zanasi@gmail.com

 

Abstract

Der Aufsatz kreist um die Verkündigung einer neuen Menschheit, die die expressionistische Dramatik und Lyrik der Kriegs- und Revolutionsjahre prägte. Die Verknüpfung apokalyptischer und messianischer Phantasien, bzw. die Vorstellung der epochalen Wende auf Grund einer geistigen Revolution stellte einen einmaligen, schwer greifbaren Ausbruch der Utopie in der deutschen literarischen Kultur dar. Anhand emblematischer Fälle (E. Toller, G. Heym, L. Rubiner, F. Werfel u.a.), fokussiert die Verf. gemeinsame Elemente im intellektuellen und affektiven Horizont der Generation, die sich in ihren ethisch-ästhetischen Instanzen widerspiegelten, und verweist dabei auf die soziopsychologischen Wurzeln solch eines utopischen Schwungs, der nicht zufällig kurz nach dem Zusammenbruch der Novemberrevolution erlosch.

 

Nell’ambito della nostra tematica centrata sui profondi rivolgimenti politico-sociali ma anche culturali legati alla svolta del 1918, vale la pena ritornare brevemente su umori e tensioni dell’Avanguardia storica tedesca e, in particolare, sul sogno della nuova umanità che improntò con sempre maggiore forza la letteratura militante pacifista degli anni di guerra, segnando l’ultima fase del movimento espressionista.

Su questa materia è quasi d’obbligo partire da Ernst Toller, come noto tra i più celebri autori di teatro dell’epoca, che continuò a godere di una larga risonanza per tutti gli anni Venti – basti pensare alla messinscena piscatoriana del suo Hoppla, wir leben! nel ’27 – prima di condividere la sorte degli esuli negli anni bui del nazismo e di porre fine ai suoi giorni in solitudine, nel ’39, in un hotel di New York.

Toller era accorso volontario in guerra, faceva parte dei tanti giovani che avevano risposto entusiasticamente all’appello del Kaiser a diventare un popolo solo nella difesa della patria, ma a cospetto delle atroci esperienze della vita al fronte, della desolante quotidianità di distruzione e morte, si spense rapidamente l’illusione del gesto eroico, della lotta comune per un grande ideale, o almeno quell’ideale si rovesciò nella professione di fede pacifista, nell’impegno per una rivoluzione di segno inverso. Emblematica la vicenda ricostruita poeticamente nella sua prima pièce, Die Wandlung, scritta giusto nel ’18 e rappresentata alla “Tribüne” di Berlino l’anno dopo, in cui lo scrittore ripercorre le tappe della sua conversione umanitaria, chiudendo con un accorato appello a ritrovare sentimenti di amore e fratellanza, a riscoprire in se stessi l’Uomo, “den wirklichen Menschen”:

Ihr seid alle keine Menschen mehr, seid Zerrbilder euer selbst.
Und ihr könntet doch Menschen sein, wenn ihr den Glauben an euch und den Menschen hättet, wenn ihr Erfüllte wäret im Geist.
[…]
Oh, wenn ihr Menschen wäret – unbedingte, freie Menschen.
[…]
Nun, ihr Brüder, rufe ich euch zu: Marschiert! Marschiert am lichten Tag!1

Un appello pronunciato con grande enfasi in uno scenario quasi sacro, di fronte al portale di una chiesa e nella luce piena del mezzogiorno, che viene estaticamente accolto dalla folla:

Daβ wir es vergaβen! Wir sind doch Menschen!
[…]
Flammender freudiger Ton!
Schreite durch unser freies Land
Revolution! Revolution!2

Troviamo qui un perfetto esempio del Verkündigungsdrama espressionista, dramma dell’annunciazione appunto di una nuova umanità, articolato in singoli tableaux sul modello dei Mystery plays, con un’alternanza di scene realiste e visionarie, stilizzato eppure ricco di pathos, fortemente gestuale, teatro – com’è facile intuire – che puntava sulla suggestione, che mirava a un forte coinvolgimento emotivo. E si potrebbero menzionare diversi altri testi teatrali d’ispirazione umanitaria di autori del tempo come Wolfgang Kaiser, Walter Hasenclever, Fritz von Unruh, Ludwig Rubiner e dello stesso Toller, autori cui toccò in seguito il difficile destino degli heimatlose Linken nella Repubblica di Weimar.

In opere di questo tipo, nella cosiddetta O-Mensch Dramatik come pure nella lirica dell’Avanguardia di quegli anni, si celebra uno dei momenti più accesi dell’utopia nella cultura letteraria tedesca, parlerei di una vera e propria furia utopica, davvero sconcertante e assai difficile da decifrare, tanto più oggi, a fronte del totale disincanto della nostra era postideologica. E si tratta però di un aspetto molto importante per capire a fondo la natura del movimento espressionista, come pure per risalire alle origini della costellazione repubblicana di Weimar, e cioè alle radici del cosiddetto radicalismo della cultura degli anni Venti.

Già testimonianze e memorie del tempo sottolineano il carattere straordinario, inspiegabile del fenomeno, confessano apertamente l’impossibilità di rendere quella fulminea eruzione dell’ideale3. E tra gli stessi contemporanei non mancò chi seppe coglierne anche tutti i rischi: un’accorata lettura in negativo ci giunge da Thomas Mann, malinconico figlio dell’Ottocento, nelle Considerazioni di un impolitico, magmatico “inventario” del suo mondo culturale, filosofico, ideologico, poetico, nato da una crisi profonda proprio negli anni di guerra, a ridosso del 1918, in cui ci viene offerto un ritratto che a posteriori possiamo definire ahimè tragicamente profetico. Mann stigmatizzava infatti il nuovo secolo che si era aperto nel segno minaccioso dell’utopia, dell’illusione di cambiare gli uomini e il mondo, un secolo segnato – come il Settecento – dalla tendenza a trasfigurare idealisticamente la realtà, anzi dalla “tirannia degli ideali”:

Es glaubt – oder es lehrt doch, man müsse glauben. Es sucht zu vergessen, “was man von der Natur des Menschen weiß“ – um ihn an seine Utopie anzupassen. Es schwärmt für „den Menschen“ ganz im dix-huitième-Geschmack […] Die Vernunft und das Herz: sie stehen wieder obenan im Vokabular der Zeit, – jene als Mittel, das „Glück“ zu bereiten, dieses als „Liebe“, als „Demokratie“. Wo wäre noch eine Spur von „Unterwürfigkeit vor dem Wirklichen“? Aktivismus vielmehr, Voluntarismus, Meliorismus, Politizismus, Expressionismus; mit einem Worte: die Domination der Ideale. […] der Geist sei Wille und er schaffe das Paradies. […] Dies alles zusammen ist das „Neue Pathos“ […] es verkündet „entschlossene Menschenliebe“. Unduldsam, ausschließlich, von einer französischen Bösartigkeit der Rhetorik, beleidigt es, indem es alle Sittlichkeit für sich in Anspruch nimmt […]4

Sottolineo che i termini amore, felicità, paradiso facevano realmente parte del vangelo umanitario degli espressionisti, ricorrevano in molti testi poetici come pure nella saggistica ad es. di Kurt Hiller. E, come noto, l’attacco di Mann era rivolto qui in primo luogo proprio alla cerchia di Hiller e in sostanza, tra le righe, all’impegno civile del fratello Heinrich, ma in realtà – come si evince dalla stessa citazione – la sentenza cadeva pesante su tutto il movimento nelle sue varie articolazioni e sfaccettature. E qui voglio solo aggiungere, almeno con un accenno, che questa lucida diagnosi fallisce invece quando Mann affianca alla parola chiave del cuore quella della ragione, o anche progresso, società, democrazia, e cioè quando vede questi giovani intellettuali e poeti ispirati in primis da una “cattiva retorica francese”, in sostanza dall’eredità illuminista, perché in verità, sia pure con altri accenti, erano esattamente come lui figli di Nietzsche. E se ne accorse lui stesso più tardi, convertito alla democrazia, nei disperati appelli alla ragione dei primi anni Trenta5.

Ho fatto un passo indietro, all’immediato anteguerra, ai pochi intellettuali che – con buona pace di Mann – non caddero preda dell’ubriacatura nazionalista del ’14: la cerchia della rivista “Die Aktion” e del “Neuer Club” a Berlino, ma anche i circoli anarchici come la “Gruppe Tat” di Erich Mühsam a Monaco. È qui che matura l’idea, l’ideale della nuova umanità, della Gemeinschaft da costruire a partire da una rivoluzione dello Spirito, da un riscatto delle singole coscienze, da un radicale sovvertimento dell’universo negativo della Zivilisation basato sul potere e sul possesso.

Kurt Pinthus faceva coincidere la data di nascita dell’Espressionismo con la serata organizzata dalla redazione della “Aktion”, in cui Max Brod aveva letto passi di sue opere introducendo anche testi di uno scrittore praghese ancora quasi sconosciuto, Franz Werfel – versi animati da un forte spirito umanitario che erano stati accolti con enorme entusiasmo. Mi limito a ricordare qui il famosissimo incipit della lirica An den Leser e l’ultima strofa:

Mein einziger Wunsch ist, Dir, o Mensch, verwandt zu sein!
[…]
So gehöre ich Dir und Allen!
Wolle mir, bitte, nicht widerstehn!
Oh könnte es einmal geschehn,
Daß wir uns, Bruder, in die Arme fallen! 6

Questi umori furono intensificati ovviamente dal trauma della guerra e riscaldati poi dal vento della rivoluzione, nella breve stagione rossa che vide proliferare appelli e manifesti o anche piccole riviste come “Die Erde”, “Revolution”, “Menschen”; e già i nomi stessi di queste testate come pure i titoli di antologie liriche apparse in quegli anni come Kameraden der Menschheit ci danno un ulteriore segno dello slancio utopico di cui dicevo prima.

Troppo lungo sarebbe addentrarsi sui molteplici influssi che erano in gioco: un arco di suggestioni molto ampio che andava dal versante mitico-profetico del pensiero di Nietzsche al socialismo utopico, dalle battaglie civili di Zola alla grande lezione del romanzo di Tolstoj, dal pensiero di Stirner alla mistica di Buber, fino alle teorie anarchiche di Kropotkin e, soprattutto, di Gustav Landauer, leader di grandissimo carisma. E certo, all’interno della specifica dinamica tra Espressionismo e Attivismo, vanno distinte la linea aristocratico-elitaria alla Hiller e quella anarchica di Erich Mühsam o Ludwig Rubiner, e si dovrebbero anche opportunamente differenziare singole figure, posizioni, opere, modalità espressive. C’è tuttavia un denominatore comune che pervade le diverse anime del movimento, e per il mio discorso è forse più interessante ragionare su questo, ossia sulla intensità, che divenne a tutti gli effetti una sorta di imperativo etico-estetico:

Diese Gemeinsamkeit ist die Intensität und der Radikalismus des Gefühls, der Gesinnung, des Ausdrucks, der Form; und diese Intensität, dieser Radikalismus zwingt den Dichter wiederum zum Kampf gegen die Menschheit der zu Ende gehenden Epoche und zur sehnsüchtigen Vorbereitung und Forderung neuer, besserer Menschheit7.

Il nodo centrale è a mio parere proprio questo o almeno qui si pone la domanda di fondo: da dove nasceva questa intensità, questo assolutismo sia nella negazione che nel progetto? Una domanda a cui ritengo che i numerosi studi sull’Avanguardia storica non abbiano fin qui dato una risposta del tutto soddisfacente, limitandosi per lo più a rinviare alle tradizioni idealiste, all’analfabetismo politico e, fondamentalmente, a un estremo soggettivismo dei giovani poeti.

Il discorso sarebbe lungo e complesso, qui provo soltanto ad abbozzare schematicamente un’interpretazione servendomi di nuovo di un caso emblematico, quello di Georg Heym, che nei suoi versi e racconti come pure in lettere e diari ci ha lasciato la testimonianza più incisiva dello stato d’animo della gioventù di quel tempo, assetata di azione e di emozioni, soffocata da un mondo stantio, devitalizzato, pietrificato. Heym confessa la sua inesorabile infelicità, lamentando ripetutamente la vacuità del tempo in cui è condannato a vivere, la banale uniformità della vita, la noia abissale8. Celebri le sue fantasie: tagliare il filo al venditore di palloncini o assassinare il Kaiser o erigere di nuovo barricate e fare una rivoluzione o anche cominciare una guerra, sia pure ingiusta – un qualunque evento choc, insomma, che valesse a scuotere e destare la Germania, anzi l’intero vecchio continente europeo dal suo “infinito letargo”9. E a questa sensazione di vuoto si affiancava l’avversione per un ordine sociale percepito come una rete di istituzioni autoritarie, repressive – famiglia stato scuola fabbrica caserma partito – che vanificavano in partenza ogni ricerca di legami autentici, di coesione e appartenenza.

In breve, direi semplicemente che la titanica vocazione etica degli espressionisti nasceva da un desolato senso di isolamento e impotenza, da una volontà di riappropriazione di sé e del mondo totale come totale se ne avvertiva la perdita, era la rivolta di un’intera generazione oppressa dalla Deutsche Misere dell’era guglielmina, oltre che profondamente segnata dai disastri affettivi della famiglia patriarcale del tempo.

Heym rifiuta drasticamente la morale e la religione, i valori borghesi, la cultura ufficiale, in sostanza tutto quello che rinviava alla tradizione, al mondo paterno. Irriducibile, per l’appunto, il suo antagonismo col padre e siamo, come noto, a una componente centrale dell’orizzonte esistenziale e poetico espressionista: nel suo studio del ’31 sul topos del rapporto padre-figlio, Kurt Wais affermava che la storia di questo topos quasi coincideva con la storia della letteratura tedesca moderna10.

Qui riapro una parentesi sul mondo asburgico, mi limito a nominare soltanto la costellazione Kafka, ritorno invece a Werfel ricordando il celebre racconto Nicht der Mörder, der Ermordete ist schuldig (1920), uno dei testi canonici del conflitto generazionale, che riassume come in una piccola enciclopedia tutte le pene individuali e le istanze eversive e utopiche, in senso sia erotico-vitalistico che politico-sociale, dei giovani del tempo11.

In questo contesto vale la pena richiamare anche Paul Federn – figura di punta del cenacolo freudiano, dal ’24 fino all’esilio nel ’38 vicepresidente della Società psicanalitica a Vienna – che nel suo studio Zur Psychologie der Revolution. Die vaterlose Gesellschaft (1919) interpretò la caduta dell’impero come definitiva resa dei conti con la trinità Gott Kaiser Vater, crollo di un intero sistema sorretto dalla concezione patriarcale del mondo, svolta epocale in cui spettava ai giovani il compito di creare il nuovo ordine basato su una nuova dimensione umana, su sentimenti di solidarietà e fratellanza. E in proposito va anche ricordato che questo intreccio di profondo disagio esistenziale e impulso rivoluzionario salvifico era già stato anticipato da un altro dei testi canonici del movimento, il dramma Der Sohn di Hasenclever del 1914.

È una prospettiva importante per mettere in luce le radici psicologiche oltre che politico-sociali e culturali della sensibilità espressionista, anche se l’impeto antiautoritario e l’implicita fascinazione per il femminile, per il materno, aprirà altre pesanti contraddizioni e lacerazioni in cui forse a distanza di un secolo ci dibattiamo ancora.

E torno un’ultima volta alla forza anticipatrice di Heym, venendo più specificamente al suo linguaggio sia poetico che narrativo, alle sue opere in cui il registro lirico si mescola al grottesco, in cui le immagini di morte, putredine e distruzione si alternano a quelle di rinascita, alla nostalgia dell’amore e della vita. La generazione espressionista vive, come sappiamo, in questo intreccio di angoscia e proiezioni utopiche, tra percezione nichilista della fine e visione estatica di un nuovo inizio – è l’intreccio a cui rinvia il titolo della raccolta lirica di Kurt Pinthus, già citata prima, che gioca con la felice ambivalenza del termine Dämmerung12. Ed è la stessa doppia anima resa magistralmente da un classico del cinema espressionista, il capolavoro di Fritz Lang Metropolis, che riflette da una parte l’orrore della città, della fabbrica, della macchina e dell’uomo-massa, un mondo lacerato dal conflitto generazionale e da conflitti sociali, ma al tempo stesso l’utopia della riconciliazione sulla base di una pulsione puramente affettiva, di un’intima conversione al principio umanitario.

In sostanza, è chiaro che il visionarismo apocalittico e quello messianico erano due facce della stessa medaglia e, d’altra parte, si sa come utopia e apocalisse siano strettamente imparentate: ce lo ha insegnato tra gli altri Ernst Bloch con il suo Geist der Utopie, che risale appunto al 1918, ma soprattutto col più tardo Das Prinzip Hoffnung, che vede invece la luce dopo un altro spaventoso conflitto mondiale. Preferisco però proporre qui l’efficace sintesi di una voce più vicina a noi, quella di Enzensberger:

Die Idee der Apokalypse hat das utopische Denken seit seinen Anfängen begleitet, sie folgt ihm wie ein Schatten, sie ist seine Kehrseite, sie läßt sich nicht von ihm ablösen: ohne Katastrophe kein Millennium, ohne Apokalypse kein Paradies. Die Vorstellung vom Weltuntergang ist nichts anderes als eine negative Utopie13.

Catastrofe è proprio il termine usato spesso dagli espressionisti, in particolare d’ispirazione anarchica, per indicare la rottura radicale col passato, l’auspicata cancellazione della civiltà. Così Ludwig Rubiner, in un passo in cui torna anche a risuonare l’imperativo dell’intensità:

Ich weiß einiges, über das zu diskutieren ich nicht mehr bereit bin. Ich weiß, daß es nur ein sittliches Lebensziel gibt: Intensität, Feuerschweife der Intensität […] Ich weiß, daß es keine Entwicklung gibt. […] Ich weiß, daß es nur Katastrophen gibt. […] Nur ein sittliches Lebensziel gibt es: […] Den Fortschritt der Zivilisation aufzuhalten; herauszustoßen die Selbstverständlichkeit und Sicherheit des Getragenwerdens von der Umwelt. Einen schnellen Augenblick die Intensität ins Menschenleben zu bringen: Unter Erschütterungen, Schrecknissen, Bedrohungen das Verantwortlichkeitsgefühl des Einzeln in der Gemeinschaft bewusst machen!14

Illuminante in questo senso, sul piano della formulazione poetica, una suggestiva immagine dello stesso Rubiner che trasfigurò la tremenda, rovinosa esplosione del Cracatòa in Indonesia alla fine dell’Ottocento in compiuta allegoria del grande rivolgimento spirituale, della nascita di una nuova stirpe umana:

Die kleine Kraterinsel Krakatao stieβ den brennenden Atem Gottes aus der Erde.
Explosion. Der Ozean spritzte über die Erde, unvergessen in dreiβig Menschenjahren.
Neues Menschengeschlecht, und das Jahrhundert war lang zu Ende.
Aber aus dem Pacific brannte der Feuerwind des Krakatao in unsere Herzen. 15

È evidente come quest’impeto rivoluzionario non si potesse conciliare in alcun modo con la tradizionale costellazione dell’impegno pubblico, implicava anzi l’assoluta negazione di qualsivoglia idea di progresso e sviluppo, si fondava – come già detto – sulla percezione di un’architettura del potere granitica, che non sarebbe stato possibile intaccare, che andava semplicemente demolita. Scrive ancora Rubiner: “Herrlich, wer die Kontinuität stört. Höhnungen gegen Gewöhnungen. Krater gegen Demokrater”16. Ed è interessante sottolineare che in questa negazione rientrava anche il marxismo, guardato con profondo sospetto, considerato parte integrante dell’universo materialista della Zivilisation, identificato anche con l’involuzione riformista della SPD che – non va dimenticato – figurava insieme al Borghese tra i principali bersagli della battaglia espressionista. Ma in ogni caso lotta di classe e rivoluzione proletaria erano ben lontane sia dall’ideale della Gemeinschaft additato nella fulminante lezione di Landauer sia, per altri versi, da quello di una repubblica illuminata dagli aristoi pensata da Hiller.

L’intellettuale si pone dunque consapevolmente fuori dall’orizzonte politico convenzionale e, tuttavia, rivendica con forza la valenza politica del suo impegno, del suo intento di uscire dalle sacche della decadenza riassegnando all’arte il compito di porre valori anziché di lamentarne il vuoto, il compito di ritrovare un senso, un sistema di valori, nuovi vincoli tra gli uomini17. L’arte diventa ora azione, geistige Tat, la principale arma di una battaglia politica intesa volutamente e provocatoriamente come sfida di un disegno utopico. E in questo senso il poeta non solo torna a occupare uno spazio pubblico, ma rivendica anche un ruolo assolutamente centrale, poiché è facile capire che in questa visione dicotomica in cui Geist si configurava come il polo opposto di Zivilisation, in cui il mondo nuovo poteva scaturire soltanto da una rivoluzione dello Spirito, dalla singola conversione all’ideale della Menschlichkeit, il leader non poteva che essere il poeta, il Geistiger appunto, in virtù della sua intensità e della capacità di infonderla negli altri.

Questo significa – mi preme sottolinearlo – che molte visioni profetiche non erano semplice Schwärmerei, mere effusioni sentimentali di letterati sprovveduti, ma venivano usate spesso consapevolmente come antitesi utopiche col necessario pathos e con tutti i necessari strumenti retorici, erano dunque precise operazioni intellettuali, una precisa strategia di lotta, sia pure certamente dettata dalla fede nella forza magnetica della parola poetica.

È superfluo aggiungere che le armi dell’utopia e dell’intensità non scalfirono neanche la pesante corazza del sistema e l’incendio espressionista si spense rapidamente a fronte del fallimento della fragile rivoluzione tedesca nel biennio 191819 e delle nuove miserie della neonata Repubblica di Weimar.

Già lo stesso racconto di Werfel Nicht der Mörder, der Ermordete ist schuldig si conclude paradossalmente rinnegando l’hybris della redenzione, dell’eudemonismo espressionista, anzi quasi denunciandone le radici nevrotiche. L’Io narrante, infatti, aspirante parricida e rivoluzionario, alla fine emigra in America e dalla prospettiva del nuovo mondo rivede la propria esperienza, anzi l’intero vecchio continente con tutte le sue strutture di potere, istituzioni, usanze, mode culturali e con le sue stesse rivolte, come uno spazio ristretto, fantasmatico, irreale, malato: “Winkel, in dem sich, mit Wahn und Träumen Unzucht treibend, die große Kind-Angst der Menschheit verkriecht”18.

Un anno dopo appare Die schlimme Botschaft (1921) di Carl Einstein – in quegli anni figura di punta del Dada politico, un autore che per la verità all’Uomo nuovo non aveva creduto mai, respingeva anzi come stereotipato e triviale qualunque gesto messianico. Lo stesso spirito anima questo testo teatrale estremamente trasgressivo, centrato su una violenta inversione di segno delle principali figure e vicende del racconto evangelico, alle quali si sovrappongono poi grottescamente ogni sorta di squallidi esponenti del mondo weimariano del mercato e degli affari. L’opera, che valse all’autore una condanna per blasfemia, rappresenta brutalmente il perfetto rovesciamento del Verkündigungsdrama espressionista, annunciando la cattiva novella che nessuno redime nessuno, che ciascuno rimane appeso alla sua croce, denunciando anzi il carattere irresponsabile di ogni fede, il narcisismo e la crudeltà insiti in ogni utopia.

Dello stesso anno è l’invettiva sulla fine dell’Espressionismo di Iwan Goll che invece, diversamente da Einstein, in quegli ideali si era tuffato sino in fondo e ancora qualche anno prima aveva lanciato un infuocato “appello” a poeti e artisti:

Und du Dichter, schäme dich nicht in die verlachte Tuba su stoβen. Komm mit Sturm. Zerdonnere die Wölklein romantischer Träumerei, wirf den Blitz des Geistes in die Menge. […]
Licht brauchen wir: Licht, Wahrheit, Idee, Liebe, Güte, Geist!
Sing Hymnen, schrei Manifeste, mach Programme für den Himmel und die Erde. Für den Geist!
Künstler, schenke uns dein grosses Herz.19

Goll invita ora crudamente a chiudere con ogni pathos umanitario: “Weg mit der Sentimentalität, ihr Deutschen, was gleichbedeutend ist mit: ihr Expressionisten”20; l’avanguardia svanisce ai suoi occhi sul cadavere della rivoluzione di cui avrebbe voluto essere l’ispiratrice; a fronte della nuova “Repubblica tedesca” le bocche dei poeti-profeti si richiudono e ammutolisce anche la tromba dell’annunciazione:

der Expressionismus [krepiert] an jenem Revolutionsaas, dessen mütterliche Pythia er sein wollte. […] Der Expressionist sperrt den Mund auf…und klappt ihn einfach wieder zu. Die Waffe, die Tuba nämlich, fällt den Meidnerschen Europa-Propheten aus der Hand […]. Bitter, bitter wird der ekstatische Mund. 21

Intanto era già entrato in scena un nuovo autore, un giovane che aveva chiuso in partenza clamorosamente con ogni Sentimentalität, condannando l’insulso mattatoio della guerra nazionalista, ma respingendo anche il sacrificio per qualsivoglia altra nobile causa. Penso in particolare al personaggio del reduce Kragler, distrutto dalla guerra, che si lascia tentare solo per un attimo dai tamburi della rivoluzione, ma alla fine il tamburo lo suona invece solo per urlare la voglia di sopravvivere “nella propria pelle”. Trommeln in der Nacht, scritto nel ’19 e rappresentato nel ’22, segna una cesura profonda, può essere considerato il vero spartiacque fra lo Zeitgeist espressionista e la cultura degli anni Venti, anche se, come sappiamo, il nome di Brecht si legherà in seguito a una grande battaglia politica, a un’altra utopia di sovvertimento rivoluzionario del mondo destinata a segnare, questa sì, nel bene e nel male l’intero secolo.

 


1 E. Toller, Die Wandlung, in Prosa, Briefe, Dramen, Gedichte (mit einem Vorwort von Kurt Hiller), Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1961, pp. 284-285.

2 Ivi, p. 285.

3 Si veda ad es. la vecchia documentazione curata da P. Raabe, Expressionismus. Aufzeichnungen und Erinnerungen der Zeitgenossen, Walter V., Olten – Freiburg 1965.

4 Th. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen (1918), a cura di P. de Mendelssohn, Frankfurter Ausgabe – Fischer, Frankfurt /M. 1983, pp. 26-27 (corsivi nel testo).

5 Cfr. ad es. Deutsche Ansprache. Appell an die Vernunft (1930) [in Th. Mann, Essays, a cura di H. Kurzke e St. Stachorski, Fischer, Frankfurt/M 1993, vol. 3, pp. 259-279], in cui lo scrittore esplora le radici dell’humus di cui si nutriva il nuovo minaccioso nazionalismo tedesco, tornando tra l’altro sull’orizzonte spirituale della generazione espressionista, sulle pulsioni oscure, vitaliste, sul ripudio di ogni “Vernunftglauben” (ivi, p. 266) e, in generale, sulla profezia di un rivolgimento epocale destinato a liquidare l’intero mondo nato dalla rivoluzione francese.

6 La lirica apre la raccolta di Werfel Weltfreund, che apparve a Berlino nello stesso anno (1911), e l’anno dopo presso il celebre editore dell’Avanguardia Kurt Wolff. Mi piace citarla però dalla canonica antologia di lirica espressionista curata da Kurt Pinthus nel 1920 (Menschheitsdämmerung. Ein Dokument des Expressionismus, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1959, p. 279), ricordando che Werfel è l’autore presente col maggior numero di liriche, non tanto ovviamente nella prima sezione Sturz und Schrei, quanto nelle tre sezioni successive: Erweckung des Herzens, Aufruf und Empörung e Liebe den Menschen; ed è anche una sua lirica a chiudere la raccolta ( Ein Lebens-Lied, ivi, pp. 328-329).

7 K. Pinthus, Zuvor, ivi, p. 23. Il passo fa parte dell’introduzione scritta da Kurt Pinthus nell’autunno del 1919 per la prima edizione della sua antologia, che apparve l’anno dopo col sottotitolo Symphonie jüngster Dichtung. Si veda anche la toccante premessa alla nuova edizione del 1959: Nach vierzig Jahren (ivi, pp. 7-21). A proposito dell’intensità e, in generale, dell’humus comune, sarà opportuno ricordare qui anche, sia pure solo con un accenno, la centralità della componente religiosa e culturale ebraica: ebrei erano notoriamente sia Hiller che Landauer, sia Mühsam che Rubiner e, tra gli altri, lo stesso Toller.

8 Si veda ad es. tra le tante possibili citazioni: Eine Fratze (1911) [in G. Heym, Dichtungen und Schriften, a cura di K. L. Schneider., H. Ellermann V., Hamburg-München 1962, vol. 2, p. 173]: „Unsere Krankheit ist grenzenlose Langeweile. […] Unsere Krankheit ist, in dem Ende eines Welttages zu leben, in einem Abend, der so stickig ward, daβ man den Dunst seiner Fäulnis kaum noch ertragen kann“. Eloquente in questo senso il singolare appello di Kurt Hiller contro quello che appariva come uno dei sintomi più vistosi del malessere del tempo: „Desennujez vous!“ (K. Hiller, Die Weisheit der Langenweile, Leipzig 1913, vol. 1, p. 20).

9 Cfr. G. Heym, Zu den Wahlen (1912), in Dichtungen und Schriften, cit., pp. 176-178. Il poeta commenta qui le elezioni politiche del ’12 in Germania, ribadendo ancora una volta la “noia mortale”, in questo caso anzitutto la profonda insofferenza verso la SPD, e aggiungendo anche, significativamente, l’auspicio che potessero arrivare al potere figure come Wedekind.

10 Cfr. K.K.T. Wais, Das Vater-Sohn-Motiv in der Dichtung 1880-1930, 2 voll., De Gruyter, Berlin-Leipzig 1931 (qui vol. 2, p. 47). Su questo complesso nodo tematico mi permetto di rinviare a G. Zanasi, Il caso Gross, L’anima espressionista, la psicanalisi e l’utopia della felicità, Liguori, Napoli 1993.

11 Un’ampia analisi di questi aspetti del racconto è contenuta nel suddetto studio, Il caso Gross, pp. 171-201.

12 Anche se largamente noto, vale la pena rileggere il relativo passaggio della premessa di Pinthus, in cui si riflette anche l’audace ambizione di eleggere tout court l’Uomo ad artefice della rivoluzione poetica e della palingenesi: “In diesem Buch wendet sich bewußt der Mensch aus der Dämmerung der ihm aufgedrängten, ihn umschlingenden, verschlingenden Vergangenheit und Gegenwart in die erlösende Dämmerung einer Zukunft, die er selbst sich schafft.” (K. Pinthus, Zuvor, in Menschheitsdämmerung, cit., p. 25).

13 H. M. Enzensberger, Zwei Randbermerkungen zum Weltuntergang, in “Kursbuch” 52, 1978, p. 1.

14 L. Rubiner, Der Dichter greift in die Politik (1912), in Der Dichter greift in die Politik. Ausgewählte Werke 1908-1919, a cura di K. Schuhmann, Röderberg, Frankfurt/ M. 1976, pp. 251-252. Sono concetti e immagini ricorrenti sia nel lessico poetico che nella saggistica del tempo, costellata da termini come Feuer, Licht, Meteor o Absprung, Erschütterung, Umwälzung, Zerschmetterung o ancora da verbi come aufreissen, aufsplittern, bersten, brennen, sprengen, zersprengen.

15 L. Rubiner, Das himmliche Licht, ivi, p. 13

16 L. Rubiner, Der Dichter greift in die Politik, ivi, p. 260.

17 Significativa ad es. in questo senso, per rimanere ancora a Rubiner, l’entusiastica accoglienza del famoso romanzo di Heinrich Mann Il suddito, che ai suoi occhi travalicava la dimensione meramente artistica, assumendo una profonda valenza spirituale e politica: “Hinter ihm steht heute unser aller Drang nach Änderung, Umsturz”, e restituiva dunque identità e dignità all’intellettuale rispetto al desolante contesto tedesco: “In dem Lande Ruβland ist ein Dichter ein Prophet. In Italien ein Führer, in England ein Aufrüttler, in Frankreich ein Parteimann. In Deutschland ein Dreck.” (L. Rubiner, Untertan, ivi, p. 194).

18 F. Werfel, Nicht der Mörder, der Ermordete ist schuldig und andere Erzählungen, Fischer, Frankfurt/M 1988, p. 117.

19 I. Goll, Appell an die Kunst (1917), in Ich schneide die Zeit aus. Expressionismus und Politik in Franz Pfemferts ‘Aktion’ 1911-1918, a cura di P. Raabe, DTV, München 1964, pp. 308-309.

20 I. Goll, Der Expressionismus stirbt (1921), in Theorie des Expressionismus, a cura di O.F. Best, Reclam, Stuttgart 1976, pp. 227-228.

21 Ivi, pp. 226-227. Tra le tante altre possibili citazioni sul congedo aspro o nostalgico dall’Espressionismo, ricorro un’ultima volta alle parole di K. Pinthus, qui nel suo amaro Nachklang del ’22 (in Menschheitsdämmerung, cit., pp. 34-35): “Frühzeitig erstarb die Dichtung dieser Jugend […] Alles aber ist Zeugnis für die Glut einer inneren und äuβeren Bewegung, die fast gänzlich wieder erloschen ist. […] ein Zeugnis von tiefstem Leid und tiefstem Glück einer Generation, die fanatisch glaubte und glauben machen wollte, daβ aus den Trümmern durch den Willen aller sofort das Paradies erblühen müsse”.