Alessandra Schininà
(Università degli studi di Catania)
a.schinina@unict.it
Abstract
Der Beitrag analysiert die ersten, zwischen 1923 und 1927 erschienenen, Romane Josephs Roths (Das Spinnennetz, Die Rebellion, Hotel Savoy, Flucht ohne Ende) im Kontext der Nachkriegszeit. Themen wie das Wiedereinsetzen der Heimkehrer, Arbeitslosigkeit und Hungersnot, die Flüchtlingswelle aus dem Osten, der Wohnungsmangel, die Inflation und Spekulation, die Vorzeichen des Nationalsozialismus, die Frustration und der Haß des Kleinbürgertums, der Mythos Amerika und der Mythos der Russischen Revolution, die schon in den journalistischen Schriften Roths anwesend waren, werden in Romanform bearbeitet. Im Geflecht von individuellen und exemplarischen Schicksalen tauchen all die Krankheiten und Neurosen der Zwischenkriegszeit auf.
»Am 3. November des Jahres 1918 faßte Heinrich P. den Entschluß, sein tägliches Brot mit der Schriftstellerei zu verdienen«1, »Il 3 novembre del 1918 Heinrich P. prese la decisione di guadagnarsi la pagnotta con l’attività di scrittore« così scrive Joseph Roth nella pagina iniziale di un racconto, più che altro un frammento non datato, stabilendo una relazione diretta tra la decisione di diventare scrittore e i giorni di svolta del 1918.
Il protagonista del testo Heinrich P., una sorta di proiezione ironica di Roth, è un ex-ufficiale dell’esercito austroungarico che si ritrova semplice cittadino della neonata Repubblica ceca. Tornato nella cittadina natale di Brünn il 1 novembre 1918 vede gli effetti della „rivoluzione“ e decide che tutto ciò ha bisogno di una »acuta formulazione letteraria«2. L’autore non manca di sottolineare che a causa della sua natura passiva il protagonista vive questa rivoluzione in fieri già da una prospettiva storica distaccata. Heinrich P. decide dunque di intrecciare il proprio destino ai cambiamenti che vuole studiare e insieme descrivere. Del resto si chiede: »Was konnte ein Mensch von seiner Passivität in dieser offenbaren sehr aktiven Zeit beginnen?«3, »Cosa poteva intraprendere un uomo della sua passività in un’epoca così palesemente attiva?«.
Proprio come il giovane Roth, Heinrich P. inizia a lavorare nella redazione di un giornale e scrive articoli sulla propria esperienza rivoluzionaria, ma ben presto si rende conto che la differenza tra la realtà della rivoluzione e la sua rappresentazione è altrettanto grande di quella tra la descrizione della guerra e la guerra reale. Se nella conclusione aperta il protagonista del frammento viene abbandonato ad un destino di mediocrità letteraria non accade lo stesso al suo autore, per il quale tuttavia quei fatidici giorni del 1918 restano un primo motore di scrittura e di riflessione storico-esistenziale a cui continuerà a tornare.
Il giovane redattore Roth, autore di feuilleton firmati „Josephus“, attivo dapprima a Vienna e poi dal 1921 a Berlino4, si pone il problema di come rendere nella scrittura una realtà »scompaginata«, »aus den Fugen geraten«, in cui sono crollate le vecchie certezze, i falsi miti e in cui il nuovo ordine politico sociale, la Repubblica, la democrazia non riesce a prendere forma. »Die Kulissen sind zerstört. Das ist das – vorläufige – Ergebnis des Jahres 1918«5, »Le scenografie sono crollate. Questo è il risultato – provvisorio – dell’anno 1918«, scrive ancora nel 1925, rivelando la persistenza di un che di precario e di irrisolto.
Per il giovane Roth si tratta di una questione pubblica e privata e, una volta presa la decisione di legare il suo destino alla scrittura, anche di stile, di forma espressiva. La nota affermazione autobiografica: »Ich wurde eines Tages Journalist aus Verzweiflung über die vollkommene Unfähigkeit aller Berufe, mich auszufüllen«6, »Sono diventato giornalista per disperazione, perché ogni occupazione era totalmente incapace di soddisfarmi«, si accompagna sia ad una costante riflessione sulle caratteristiche di una generazione che entrata giovanissima in guerra ha perso ogni illusione, sia alla ricerca di una formulazione adeguata a venire a capo della condizione umana in una drammatica epoca di passaggio.
Va ricordato che l’inizio dell’attività giornalistica e letteraria di Roth si colloca nel bel mezzo di un lungo e intenso dibattito sulle forme del reportage e del feuilleton. Nella repubblica di Weimar il reportage era divenuto oggetto di studio come genere utile ad un ampliamento del concetto di letteratura in direzione del realismo e dell’attualità. L’enorme popolarità della raccolta di articoli Der rasende Reporter di Egon Erwin Kisch, uscita nel 1924, e le teorie della Neue Sachlichkeit alimentarono un confronto che coinvolse intellettuali e scrittori7.
Se inizialmente in Roth sembra prevalere l’atteggiamento „obiettivo“ del fotografo8, ben presto egli pone l’accento sulla ineliminabile componente individuale: il cronista più che dell’evento parla di sé, della sua presenza, delle sue impressioni, del proprio rapporto con il fatto. A proposito del valore letterario del reportage si chiede: »Wieviel Kunst gehört dazu, eine nackte Realität zu einer künstlerischen Wahrheit zu machen?9, »Quanta arte è necessaria perché una nuda realtà diventi una verità artistica?« La concentrazione sui particolari, la ricerca delle parole adeguate, di uno stile, che Roth ritrova e ammira in un maestro del feuilleton come Alfred Polgar, lo portano a sviluppare sempre più la componente di astrazione simbolica, fino a prendere forma nei primi romanzi scritti tra il 1923 e il 1927, Das Spinnennetz, Die Rebellion, Hotel Savoy e Flucht ohne Ende. In tutte le vicende narrate l’immediato dopoguerra continua ad essere il punto di partenza e di ritorno dei destini calati in una fase storica in cui in fondo, in senso gattopardesco, tutto cambia per restare tutto uguale.
I protagonisti dei quattro romanzi compaiono tutti sulla scena nell’anno 1918, al momento del loro ritorno dalla guerra. Sono reduci segnati, a volte anche nel fisico, dall’esperienza bellica. Attorno a loro si muovono tante figure che evocano tutta quella varia umanità, osservata dal giornalista Roth tra Vienna e Berlino, in lotta per la sopravvivenza e l’affermazione personale nelle nuove Repubbliche, piene di contraddizioni e ambiguità, in bilico tra residui del passato spesso ridicoli, ma duri a morire e moderni comportamenti, tecnologie e idee di una società di massa sempre più invasiva. L’antico ordine è crollato e quello o quelli nuovi si confrontano. Di fronte a tutto ciò gli anti-eroi di Roth sono per lo più ratlos, perplessi e disorientati, e soccombono di fronte a coloro che sanno sfruttare il momento. Le grandi questioni del dopoguerra: il reintegro dei reduci, la disoccupazione, la fame, l’arrivo di profughi dall’est, la penuria di abitazioni, l’inflazione, la speculazione, la violenza diffusa, i prodromi del nazismo, la frustrazione e l’astio della piccola borghesia, il mito dell’America e quello della Russia rivoluzionaria, tutti temi già presenti singolarmente negli scritti giornalistici, trovano ora una forma romanzesca, trattati nelle loro conseguenze sui comportamenti di singoli individui. Nell’intreccio di destini individuali e insieme esemplari emergono le malattie e nevrosi del dopoguerra.
Per l’esordiente romanziere il problema è quello di scrivere su ciò che lo circonda senza cadere in un piatto e superficiale realismo. Non si tratta solo di una questione di stile. Come per Heinrich P., ma a differenza del suo dilettantismo, per lo scrittore di professione Joseph Roth la „rivoluzione“, il crollo degli Imperi, l’avvento delle Repubbliche rappresentano un evento centrale storico e esistenziale che cerca di dominare con la scrittura. Ironico e autoironico Roth mostra il fallimento di questo tentativo, eppure proprio tra le righe delle storie fallimentari dei suoi anti-eroi cogliamo i tratti di un’epoca di passaggio, i nodi irrisolti e le speranze non ancora del tutto infrante dall’avvento della barbarie nazifascista. In questa prima fase della produzione di Roth non c’è ancora il rimpianto, seppure ambiguo, del vecchio mondo, tipico dei romanzi dell’esilio, ma un particolare miscuglio di cinismo, compassione e analisi sociale e psicologica. Nel contempo Roth sembra sperimentare tecniche narrative che non siano una superficiale riproduzione fotografica ma che cerchino di andare a fondo in un gioco tra realtà e finzione, tra verità e apparenza.
Come già accennato, i protagonisti dei romanzi di Roth ambientati nell’immediato dopoguerra rappresentano quattro diverse tipologie di reduce10: il piccolo borghese Theodor Lohse, l’invalido Andreas Pum, l’ex prigioniero di guerra Gabriel Dan e l’ex-ufficiale di professione Franz Tunda. Tutti e quattro si ritrovano nel 1918 in una sorta di anno zero da cui ripartire dal punto di vista esistenziale, sociale e lavorativo.
In tutti e quattro i testi la „rivoluzione“, intesa come guerra civile, scontro violento, rivolta ha un suo spazio. Si tratta di un momento centrale, ma osservato dal pessimista e scettico Roth nella sua sostanziale inefficacia nel cambiare l’ordine profondo delle cose. La società continua ad essere caratterizzata dall’ingiustizia; i prepotenti e i furbi dominano e i sognatori e gli onesti finiscono per soccombere. Non è forse un caso che tre dei protagonisti si dedicano alla scrittura, anche se da dilettanti, e la scrittura li aiuta in qualche modo ad andare avanti. Roth li osserva nei loro maldestri tentativi e in generale il suo approccio narrativo varia da una satira a tratti feroce ad una bonaria ironia, da un tono tragicomico ad uno più distaccato in Flucht ohne Ende, il testo scritto a distanza di più tempo dai fatti narrati e che traccia un malinconico bilancio finale, preludio di esili e perdite definitivi. Varia anche il punto di vista del narratore che si identifica e distacca insieme: si parte dalla terza persona in Spinnennetz e Die Rebellion (con repentini e significativi passaggi al noi collettivo), alla prima persona in Hotel Savoy, all’alternanza tra voce narrante e documenti presentati come originali, diari, lettere, annotazioni raccolti dal narratore, amico del protagonista, in Flucht ohne Ende.
Das Spinnenetz, La ragnatela, del 1923 è il romanzo dal tono più anomalo rispetto ai successivi racconti di Roth, che di solito appare umanamente vicino ai suoi personaggi, mostrando di comprenderne le debolezze11. Theodor Lohse è al contrario un personaggio negativo e odioso in tutti i sensi. È una spia, un traditore, un assassino, corrotto e corruttore, antisemita, bugiardo, egoista, vigliacco, ambizioso e opportunista. Lohse incarna il piccolo borghese convinto di essere una „vittima della Rivoluzione“, mentre è il prodotto e insieme il complice di una società perversa e protofascista. Proveniente da una famiglia di piccoli impiegati, Lohse, studente e poi laureato non particolarmente brillante, tornato senza niente dalla guerra scarica le sue frustrazioni e la colpa del suo degrado socioeconomico sulla rivoluzione, sulla Repubblica e sugli odiati socialisti. Nella pratica la sua vita è dominata dall’invidia verso i ricchi, gli ebrei, e dal servilismo verso le autorità. È lui il ragno che tesse la tela del titolo, nella quale alla fine egli stesso resta intrappolato. I fili di questa ragnatela appaiono nel romanzo come sospesi nel vuoto di un dopoguerra privo di punti di riferimento ideale, amorale e violento, in cui le figure sono come dei manichini, qualificati dagli abiti che indossano, dalle frasi fatte che ripetono, dalle reti criminali e politiche che intrecciano. Dall’altro lato c’è la massa grigia dei lavoratori che i „ragni“ avvertono come una cupa e indistinta minaccia.
L’unico personaggio per il quale l’autore mostra una certa simpatia è l’ebreo Lenz, l’ambiguo alter ego del protagonista, che ad un certo punto prende in mano la situazione e il racconto stesso e predice in occasione del matrimonio di interesse di Theodor la fine dell’Europa sotto la schiatta distruttrice e autodistruttrice dei Lohse:
Das war die europäische Hochzeit, hier heiratete einer, der ohne Sinn getötet, ohne Geist gearbeitet hatte, und er wird Söhne zeugen, die wieder töten, Europäer, Mörder sein werden, blutrünstig und feige, kriegerisch und national, blutige Kirchenbesucher, Gläubige des europäischen Gottes, der Politik lenkte. Kinder wird Theodor zeugen, buntbebänderte Studenten. Schulen werden sie bevölkern und Kasernen, Und Benjamin sah den Stamm der Lohse.12
Il romanzo oscilla tra realismo e una scrittura a tratti espressionista con un simbolismo coloristico che riprende e ironizza proprio quella Blut- und Bodenliteratur, della zolla e del sangue germanico, che cominciava a diffondersi. Lohse del resto scrive e si serve nei suoi scritti della retorica nazionalista e antisemita per fare carriera e influenzare i giovani. Politica e giornalismo, scrittura e propaganda sono strettamente legate e il romanzo pubblicato a puntate sulla »Arbeiterzeitung« partecipa a suo modo all’attualità, in una linea di confine tra riferimenti reali e cupe visioni (nel finale si prefigura una grande esplosione che farà saltare tutto in aria).
Se il centro, la Berlino e la Germania dei Lohse, è già marcio e insanabile, nella periferia dei grandi imperi ci sono ancora tracce di umanità perduta. In Hotel Savoy il protagonista, narratore in prima persona, può essere definito come un uomo senza qualità del dopoguerra, confuso sul mondo e su stesso13. Questo stato di smarrimento individuale e sociale, la compresenza di tante cose opposte, che non riescono ad essere collegate tra loro, capite e risolte, viene spesso reso da Roth attraverso l’uso di elencazioni. Ad esempio, appena arrivato dopo una lunga prigionia di guerra, in un albergo alle „porte dell’Europa“ l’io narrante, Gabriel Dan, afferma: »Ich freue mich, wieder ein altes Leben abzustreifen, wie so oft in diesen Jahren. Ich sehe den Soldaten, den Mörder, den fast Gemordeten, den Auferstandenen, den Gefesselten, den Wanderer.«14 E più avanti elenca le esperienze di una generazione, »Bitterkeit, Armut, Wanderung, Heimatlosigkeit, Hunger, Vergangenheit des Bettlers«15, sulle quali spera ormai di essersi elevato. È probabilmente un’illusione. L’albergo di lusso del titolo rappresenta un mondo del passato che è sì fittizio ma nello stesso tempo espressione di un’ingiustizia profonda e ineliminabile. L’ascensore dell’albergo al centro dei movimenti dei personaggi, non arriva fino ai piani superiori dell’edificio, simbolo di una stratificazione sociale persistente. Man mano che si sale, i corridoi e le camere diventano sempre meno scintillanti per arrivare alla soffitta dei diseredati. Il tutto è retto da un meccanismo anonimo, da un proprietario invisibile, che alla fine si scopre essere il diabolico e onnipresente lift che sale e scende con la sua cabina.
Non è un caso che gli orologi dell’albergo segnano orari diversi a seconda dei piani, così come il rapporto con il tempo e la libertà di scelta varia a seconda della disponibilità finanziaria da parte degli ospiti. Il riferimento al tempo scandito dagli orologi è del resto una costante per il giovane giornalista aspirante scrittore Roth. Nel 1919 scrive:
Ohne die Uhr am Stephansplatz wäre ich kein Schriftsteller. Die Stephansturmuhr ist eines meiner unumgänglich notwendigen Schriftstellerequisiten. Wenn ich schon gar keinen Stoff habe, so gehe ich zu meiner Stephansturmuhr. […] Es ist immer irgendetwas kaputt an der Stephansuhr. Sehr oft steht sie, manchmal geht sie falsch, fast immer zurück, als sehnte sie sich nach vergangenen, guten alten Zeiten. Seit einigen Wochen hat sie eine gar wunderliche Laune: Ihre linke Gesichtshälfte, dort, wo die Ziffern immer so wundervoll springen, kümmert sich einen Schmarrn, um die rechte, auf der das Ziffernblatt mit den Zeigern angebracht ist. Künden die Zeiger rechts halb zehn, so sagen die Ziffern links dreiviertel neun. […] Ich glaube, die gute Tante Stephansuhr weiß gut, was sie will. Als ein Wiener Symbol fühlt sie die Verpflichtung, ein Wiener Symptom zu werden. Sie kündet nicht die Zeiten der Stunde, sondern gleich die der ganzen Zeit. Sie spielt Verordnung und Erfolglosigkeit, Erlaß und Widerruf, Nachricht und Dementi. Sie sagt: Nur nicht alles gleich ernst nehmen in Wien! Es kommt immer ganz anders… (Josephus, Der Neue Tag 8.11.1919)16
L’orologio della torre del Santo Stefano simbolo di Vienna, il suo orario relativo (il suo tempo dilazionato?) diventa l’espressione di un’epoca di sospensione e accelerazione, di compresenza di opposti e scandisce i movimenti della scrittura che si confronta con le tensioni irrisolte dei tempi. Alla fine del romanzo la rivoluzione, guidata da una massa di operai e reduci in rivolta, farà saltare in aria l’albergo Savoy/Europa simbolo di una società iniqua e corrotta, scenario luccicante dietro cui si nascondono miserie materiali e morali. Il finale resta ancora una volta aperto. L’io narrante è un sismografo passivo di ciò che avviene intorno a lui. Gabriel Dan, uomo solo e destinato a rimanere tale, cerca una forma di comunità ma in realtà non riesce a costruirla né con gli operai in sciopero, né con i reduci dell’est che affollano le strade, né con l’amico rivoluzionario e contadino Zwonimir e neppure con la donna di cui si innamora. È il tipico personaggio di Roth, ironica proiezione del proprio io, che passa le giornate in luoghi di passaggio, l’albergo, la stazione, il caffè, osservando e scrivendo17. Proprio la scrittura lo aiuta a trovare un lavoro. Diventa una sorta di segretario temporaneo del miliardario Bloomfield, l’emigrato che ha fatto fortuna in America e ritorna a casa per visitare la tomba del padre. Gabriel Dan deve scrivere relazioni sui tanti postulanti che arrivano in albergo per chiedere aiuto finanziario. »Poter scrivere« significa per Dan trovare la serenità; nelle sue relazioni mescola storia privata e pubblica, passato e presente, vita propria e vite altrui e a volta gli sembra di consegnare a Bloomfield dei romanzi. Come il suo autore, scrivendo impara a prestare orecchio alle sofferenze umane. Questo è il tipo di scrittura cercata da Roth, utile da un lato a restituire voce agli uomini e alle donne del tempo, dall’altro a mettere ordine dentro e fuori di sé. Se prima aveva descritto i ragni adesso si sofferma sugli insetti presi in trappola:
Es geht Ihnen schlecht, den Menschen, riesenhaft steht ihr Weh vor ihnen, eine große Mauer. Eingesponnen sitzen sie in staubgrauen Sorgen und zappeln wie gefangene Fliegen. Dem fehlt es an Brot, und jener ißt es mit Bitterkeit. Der will satt sein und jener frei. Hier regt einer seine Arme und glaubt, es wären Flügel […] Es ging ihnen schlecht, den Menschen. Sie waren gefangen in Überlieferungen, ihr Herz hing an tausend Fäden, und ihre Hände spannen sich selbst die Fäden.18
Gli uomini, gli europei, gli eredi e sopravvissuti dell’impero non riescono a liberarsi di vincoli antichi e nuovi, tuttavia, a differenza della rete perversa del romanzo precedente, qui c’è un misto di solidarietà umana, tragica follia e disillusione e nel finale, come sempre aperto, risuona la parola magica America, sarà questo il futuro dopo il crollo della vecchia Europa?
In Die Rebellion, l’altro romanzo pubblicato nel 1924, continua la ricostruzione dell’atmosfera postbellica e delle ambivalenze tra persistenza e cambiamento nel centro ormai scentrato dell’ex- impero19. Andreas Pum, il protagonista, un invalido che ha perso una gamba in guerra, è circondato da figure espressione di un’epoca malata. Roth scrive sin dalle prime pagine: »Auch die scheinbar Gesunden sind krank, viele wissen es nur nicht.«20 Alla malattia si accompagna la follia. Il tram che corre sulle rotaie lungo le vie della città-giungla trasporta in giro il seme della follia e proprio in uno dei suoi vagoni accade l’episodio tragicomico che segna la caduta del protagonista21.
Andreas Pum è una versione attualizzata del tipo austriaco del suddito fedele: amante dell’ordine, patriota, pio, rispettoso e ubbidiente verso i superiori, fiducioso nella loro lungimiranza. Sognatore ad occhi aperti immagina per sé un idillio piccolo-borghese che si rivela grottesco e infine tragico. L’atmosfera nella stanza che condivide per un certo tempo con un operaio ricorda non a caso quella del Povero suonatore di Grillparzer, con i due mondi contigui e contrapposti e l’anacronismo del protagonista. Pum diventa la vittima dapprima inconsapevole, e poi consapevole ma impotente, degli interessi e nevrosi dei nuovi attori della società dopoguerra. Non si tratta dei „mostri“ della Ragnatela e neppure delle figure romanticheggianti di Hotel Savoy ma di uomini e donne comuni che cercano di sopravvivere sulle spalle di chi è più debole di loro, come la vedova di guerra che sposa Pum e poi lo molla quando perde l’ambita licenza per suonare l’organetto, il disoccupato ingegnoso che riesce a diventare imprenditore, il ricco borghese scontento che scarica le sue nevrosi sui rivoluzionari, sui diversi. La catena di equivoci che segna l’ascesa e la caduta di Pum è la conseguenza di una società insicura, impaurita, egoista e violenta, che trasforma l’invalido di guerra con medaglia al valore e licenza di suonatore in un vecchio storpio con una patacca sul petto addetto alla sorveglianza dei bagni.
L’ironia con cui il narratore racconta il tragicomico destino di Pum è a volte spietata. Al posto della protesi promessa, segno di un ritorno alla normalità, »arrivano il disordine, il tramonto, la Rivoluzione«22. Pum crede nell’ordine politico e religioso costituito e odia i ribelli, ma quando tutte le sue certezze nella giustizia superiore crollano, chiuso ingiustamente in carcere, comincia a riflettere e arriva alla conclusione, per lui sconvolgente, che il mondo non è cambiato, ma è sempre stato così. All’immagine della ragnatela, dei ragni della burocrazia e delle autorità che aspettano Pum per stritolarlo si affianca quella della prigione23. L’amata patria si rivela una cella in cui il povero capro espiatorio Pum è intrappolato: »Man ist auch so ein Gefangener, Andreas Pum! Wie Fangeisen liegen die Gesetze auf den Wegen, die wir Armen gehen.«24
Pum alla fine riflette e capisce i meccanismi del potere, ma resta impotente, forse in un’altra vita diventerà un rivoluzionario. Nel sogno finale che precede la morte, l’invalido giunto al cospetto di Dio chiede per sé l’inferno, ma Dio sorride e la sua destinazione rimane ignota, forse perché uno come lui all’inferno era già destinato? Certo è che il quadro che traccia Roth della vita in una grande città nel dopoguerra è ancora una volta pessimista.
A qualche anno di distanza, nel 1927, Roth, ormai forte dei suoi mezzi narrativi, traccia in Die Flucht ohne Ende una sorta di bilancio dei dieci anni precedenti25. Che si tratti di una riflessione storica ed insieme estetica si capisce sin dalla citatissima premessa:
Im folgenden erzähle ich die Geschichte meines Freundes, Kameraden und Gesinnungsgenossen Franz Tunda. Ich folge zum Teil seine Aufzeichnungen, zum Teil seinen Erzählungen. Ich habe nichts erfunden, nichts komponiert. Es handelt sich nicht mehr darum zu „dichten“. Das Wichtigste ist das Beobachtete…26
Il rapporto tra realtà, verità verrebbe da dire e scrittura percorre tutto il testo. Per Roth osservare significa selezionare e cogliere nei particolari il senso delle cose, della Storia e dei destini umani; scrivere è un lavoro, una tecnica che richiede talento e responsabilità27. L’esatta denominazione delle cose attraverso la scrittura è un atto creativo che vuole incidere sul reale, non una semplice documentazione28. È tutta una questione di lingua, all’interno dello stesso romanzo troviamo così l’affermazione: »Schriftsteller erleben alles durch das Mittel der Sprache, sie haben kein Erlebnis ohne Formulierung«29. Lo scrittore si fa lui stesso figura del suo romanzo e si confronta con lo scrittore dilettante Tunda. L’ex prigioniero di guerra Tunda è sopraffatto dagli eventi rivoluzionari sia quando li vive che quando cerca di descriverli. Vaga per le strade della Russia alla vana ricerca di formule tradizionali e affidabili per non sprofondare nell‘ Erlebnis, aggrappandosi infine alle nuove frasi fatte per restare a galla. L’esistenza precaria di Franz Tunda è all’insegna dell’ex: ex ufficiale austroungarico, ex prigioniero di guerra, ex cacciatore di pelli nella tundra, ex rivoluzionario, ex fidanzato, ex marito. Sospeso tra un mondo di prima ed uno di dopo appare sempre un pesce fuor d’acqua, appartenente ad una generazione di giovani di un’epoca che quando partirono per la guerra era definita grande e quando sono tornati nuova, in cui la novità consiste in una serie di esperimenti, e di rivoluzioni, falliti sul nascere30. La perdita di identità prende forma nel continuo cambio di nome sui documenti, a cui corrispondono una serie di vite vissute, o forse subite, nei dieci anni passati tra la Russia rivoluzionaria e la Parigi della modernità consumistica, passando per le periferie e i centri di una Mitteleuropa piena di contraddizioni e insidiose mescolanze tra vecchio e nuovo. Le pagine dei suoi diari, che l’autore inframezza al racconto, sono sempre nel segno dell’altrove. Per Tunda l’unica Heimat rimane l’Austria-Ungheria dell’anteguerra31. A ben guardare, o meglio leggere, anche lì era passivo, ma forse riusciva a vivere meglio il suo stato di uomo senza qualità, a viverlo come identità multipla, mobile e aperta. Nell’attualità del dopoguerra è soltanto un giovane definibile dal punto di vista della privazione: senza nome, senza importanza, senza titolo, senza soldi, senza lavoro, senza patria e senza legge, »heimatlos und rechtlos.«32
Scettico verso la rivoluzione, Tunda, nei diari scritti in Germania, manifesta la sua inadeguatezza anche in un mondo occidentale votato all’efficienza e al denaro. L’unico punto di riferimento è il ricordo di Irene, la fidanzata che aveva prima di partire per la guerra, fantasma di un amore e di un mondo perduto e irreale: una foto-ricordo, una cartolina d’altri tempi. Alla fine l’illusione crolla, l’estraneità tra Franz Tunda e Irene è reciproca: dopo dieci anni i due si incrociano e non si riconoscono o forse non vogliono riconoscersi. Il narratore dal canto suo appare affascinato da questo suo personaggio, che è passivo ma libero, è individualista e asociale ma non egoista. In un gioco di identificazione e distacco il narratore finisce per aiutare l’amico-personaggio a interpretare fino in fondo il ruolo del reduce e a scrivere un romanzo sulle sue presunte avventure siberiane per guadagnare qualche soldo. Tunda assume una maschera tra altre maschere, ma non riesce a mantenerla a lungo. Al ricevimento nel salone alla moda del fratello in Germania Roth fa pronunciare al suo antieroe pagine durissime contro la pseudocultura tedesca del dopoguerra:
»Ist das europäische Kultur?« fragte Franz und zeigte auf die Buddhas, die Polster, die breiten und tiefen Sofas, die orientalischen Teppiche: »Ihr habt, scheint es mir, einige Anleihen gemacht. Deine Gäste haben heute einige Negertänze getanzt, die wahrscheinlich nicht im ‘Parsifal’ vorkommen. Ich verstehe nicht, wie du noch von europäischer Kultur sprechen kannst. Wo ist sie? […] Diese alte Kultur hat tausend Löcher bekommen. Ihr stopft die Löcher mit Anleihen aus Asien, Afrika, Amerika. Die Löcher werden immer größer […]« »Wir machen ein paar Konzessionen«, sagte der Kapellmeister, »nichts mehr […] Man hat zu allen Zeiten fremde Sitten übernommen und sie der Kultur eingefügt.« »Wo aber ist die Kultur, der ihr sie einfügen wollt? Ihr habt ja lauter Attrappen einer alten Kultur. Sind die Studenten mit den farbigen und schlecht sitzenden Mützen alte deutsche Kultur? […] Ist alte Kultur in euren trauten Giebeldächern, in denen Arbeiter wohnen, keine Handwerker, keine Goldschmiede, keine Uhrmacher, keine Meistersinger, sondern Proletarier […] Das ist ja ein Maskenfest und keine Wirklichkeit!«33
Alla fine questa sorta di fu Mattia Pascal della Mitteleuropa si ritrova a specchiarsi davanti ad una vetrina in cui la sua immagine si dissolve. »Wir sind fremd in dieser Welt. Wir kommen aus dem Schattenreich«34, »Siamo degli estranei in questo mondo. Veniamo dal regno delle ombre«, scrive Roth a proposito della generazione sua e di Tunda. Più che il rimpianto di un mondo passato Roth utilizza la vicenda di un sopravvissuto per ricostruire un’epoca sospesa tra passato e presente, tra utopia rivoluzionaria e consumismo, tra Russia e America, tra violenza reale e nostalgie sentimentali, tra residui di antico umanesimo e nuove barbarie. La scrittura, la letteratura, l’ironia è lo strumento per cercare di capire il prima e il dopo di quell’anno 1918 in cui Joseph Roth scelse per nostra fortuna di diventare scrittore.
1 J. Roth, Immer seltener werden in dieser Welt…, in J. Roth, Die Erzählungen, Kiepenheuer & Witsch, Köln, p. 69.
2 Ivi, p. 70.
3 Ivi, p. 71.
4 Sull’attività giornalistica del giovane Roth cfr. U. Schweikert, »Der rote Joseph«. Politik und Feuilleton beim frühen Joseph Roth (1919-1926), pp. 40-55 in H.L. Arnold (a cura di), Joseph Roth. Text + Kritik, 1995, pp. 40-55 e S. Sasse, Der Prophet als Außenseiter. Rezeption von Zeitgeschehen bei Joseph Roth, ivi, pp. 76-89. Sul rapporto tra prosa giornalistica e romanzi del giovane Roth resta ancora valido il volume di Ingeborg Sültemeyer, Das Frühwerk Joseph Roths 1915-1926, Wien, Herder, 1976.
5 J. Roth, Werke II. Das Journalistische Werk 1924-1928, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1989, p. 337.
6 Ivi, p. 451.
7 Cfr. M. H. Ludwig, Theoretische Überlegungen zur Reportage: Kisch und Lukács, in M. H. Ludwig, Industriereportage in der Arbeiterliteratur, Beyer, Hollfeld 1977, pp. 12-26; D. Schlenstedt, Egon Erwin Kisch, Volk und Wissen, Berlin 1985, in part. pp.181-276; C. Jakobi, Reportage, in D. Lamping (a cura di), Handbuch der literarischen Gattungen, Kröner, Stuttgart 2009, pp. 601-605.
8 »Wie ist das Antlitz der Gegenwart zerfurcht, durchpflügt, zerrissen! Wo sind Puder und Schminke? […] Häßlich ist sie, die Zeit. Aber wahr. Sie läßt sich nicht mehr malen, sondern photographieren«, »Com’e rugoso, solcato disfatto il volto del presente! Dove sono cipria e trucco? Il tempo è brutto. Ma vero. Non si lascia più dipingere, ma fotografare«, J. Roth, Werke I. Das Journalistische Werk 1915-1923, cit., p. 215.
9 J. Roth, Werke II. Das Journalistische Werk 1924-1928, cit., p. 520.
10 Sulla figura del reduce in Roth cfr. H.R. Brittnacher, Von Heimkehrern, Vagabunden und Hochstaplern, in W. Amthor, H.R. Brittnacher (a cura di), Joseph Roth – Zur Modernität des melancholischen Blicks, De Gruyter, Berlin 2012, pp. 165-169.
11 Su Das Spinnennetz cfr. W. Duchkowitsch, Gern fabulierte Theodor Lohse im »Nationalen Beobachter« in J.G. Lughofer (a cura di), Im Prisma. Joseph Roths Romane, Ed. Art Science, Wien 2009, pp. 17-28; H. Kramer, Der soldatische Mann, Ivi, pp. 29-49; K.D. Müller, Ein Roman aus der Perspektive des Journalisten. Joseph Roths Das Spinnennetz, in J. G. Lughofer, M. Miladinovic Zolaznik (a cura di), Joseph Roth. Europäisch-Jüdischer Schriftsteller und österreichischer Universalist, De Gruyter, Berlin 2011, pp. 207-214.
12 J. Roth, Werke IV. Romane und Erzählungen 1916-1929, Das Spinnennetz, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1989, p. 134. »Erano le nozze europee, qui si sposava qualcuno che aveva ucciso senza senso, aveva lavorato senza anima, e genererà dei figli che uccideranno di nuovo, europei, che saranno assassini, sanguinari e vili, bellicosi e nazionali, frequentatori di chiese macchiati di sangue, che credono al Dio europeo che guida la politica. Theodor genererà dei figli, studenti dalle bande colorate. Popoleranno scuole e caserme. E Benjamin vide la stirpe dei Lohse.«
13 Su Hotel Savoy cfr. G. Wunberg, Joseph Roths Roman »Hotel Savoy« (1924) im Kontext der Zwanziger Jahre, in M. Kessler, F. Hackert (a cura di), Joseph Roth, Interpretation-Kritik-Rezeption, Stauffenberg, Tübingen 1990, pp. 449-461; H. Fassmann, »Man muss zum Herbst woamders sein« Aspekte von räumlicher Mobilität und Migration in Joseph Roths Roman Hotel Savoy, in J.G. Lughofer (a cura di), Im Prisma. Joseph Roths Romane, cit., pp. 105-118; J. Jablkowska, Ein Grab der armen Leute, in W. Amthor, H.R. Brittnacher, (a cura di), Joseph Roth -Zur Modernität des melancholischen Blicks, De Gruyter, Berlin 2012, pp. 103-115, W. Amthor, An den Toren Europas, ivi, pp. 117-138.
14 J. Roth, Werke IV. Romane und Erzählungen 1916-1929, Hotel Savoy, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1989, p. 149. »Mi rallegro di scuotermi nuovamente di dosso una vecchia vita, come è accaduto tanto spesso in questi anni. Vedo il soldato, l’assassino, il quasi assassinato, il risorto, il prigioniero, il viandante.«
15 Ivi, p. 150. »Amarezza, povertà, vagabondaggio, privazione di una casa, fame, passato di mendicante.«
16 J. Roth, Werke I. Das Journalistische Werk 1915-1923, cit., p. 52. »Senza l’orologio del duomo di Santo Stefano non sarei uno scrittore. L’orologio della torre è uno degli accessori assolutamente necessari per la mia attività di scrittore. Quando non ho più argomenti, vado dal mio orologio del Santo Stefano […] L’orologio della torre ha sempre qualcosa di rotto. Spesso è fermo, talvolta segna l’ora sbagliata, di solito è indietro, come se avesse nostalgia dei bei vecchi tempi. Da qualche settimana ha uno strano capriccio: il lato sinistro, dove le cifre con l’ora scattano così meravigliosamente, se ne infischia del lato destro, dove si trova il quadrante con le lancette. Se le lancette a destra segnano le nove e trenta, le cifre a sinistra indicano un quarto alle otto. […] Credo che la vecchia zia torre dell’orologio sappia bene cosa vuole. In qualità di simbolo di Vienna sente il dovere di diventare un sintomo di Vienna. Non segnala i tempi delle ore, ma direttamente questi tempi. Interpreta ordinamenti e impotenza, esenzione e revoca, notizia e smentita. Dice: non prendere niente sul serio qui a Vienna! Niente accade come ce lo aspettiamo …«
17 Sui tipici luoghi di Roth cfr. U. Zitzlsperger, Caféhäuser, Bahnhöfe und Hotels: Zur Bedeutung der halböffentlichen Räume im Werk Joseph Roths in J. G. Lughofer, M. Miladinovic Zolaznik (a cura di), Joseph Roth, cit. pp. 55-67.
18 J. Roth, Werke IV. Romane und Erzählungen 1916-1929, Hotel Savoy, cit., p. 220. »Gli uomini stanno male. Come un muro gigantesco si erge davanti a loro la loro pena. Invischiati nelle trame di grigie preoccupazioni agitano le zampette come delle mosche intrappolate. A qualcuno manca il pane e un altro lo mangia con amarezza. Quello vuole essere sazio, l’altro libero, uno alza le braccia e crede che siano ali. […] Gli uomini stavano male. Erano prigionieri in tradizioni, il loro cuore era appeso a miglia di fili, e le loro mani tessevano loro stesse i fili.«
19 Su Die Rebellion cfr. Josephs Roths Rebellion aus rechtshistorischer Perspektive, in J.G. Lughofer (a cura di) Im Prisma. Joseph Roths Romane, cit., pp. 51-74; B. Scheuringer, Die Rebellion von Joseph Roth, ivi, pp. 75-101.
20 J. Roth, Werke IV. Romane und Erzählungen 1916-1929, Die Rebellion, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1989, p. 248. »Anche quelli che sono apparentemente sani sono malati, ma non lo sanno.«
21 »Es war der Wagen des Wahnsinns […] Aus diesem Wagen breitet sich die Verrücktheit über die Welt« Ivi, p. 303. »Era il vagone della follia […] Da questo vagone si diffondeva la follia nel mondo«.
22 Ivi, p. 249.
23 Roth stesso stabilisce un collegamento tra storie di carcerati e ragni, che esercitano su di lui un’ambigua fascinazione: »Als Knabe fütterte ich Spinnen mit Fliegen. Spinnen sind meine Lieblingstiere geblieben […] Sie ruhen als Mittelpunkt selbstgeschaffener Kreise und verlassen sich auf den Zufall, der sie nährt. Alle Tiere jagen der Beute nach. Von der Spinne aber könnte man sagen, sie sei vernünftig, sie sei dem Maß weise, daß sie das verzweifelte Jagen aller Lebewesen als nutzlos und nur das Warten als fruchtbar erkennt hat. Geschichten von Spinnen, von Sträflingen, die sich in der finsteren Einsamkeit ihrer Zelle mit Spinnen unterhalten, las ich mit Eifer.« J. Roth, Werke I. Das Journalistische Werk 1915-1923, cit., p. 451. »Da ragazzo davo da mangiare ai ragni delle mosche. I ragni sono rimasti i miei animali preferiti […] Stanno al centro di circonferenze tracciate da loro stessi e si affidano al caso, che li nutre. Tutti gli animali vanno a caccia della preda. Ma del ragno si può dire che è un animale razionale, tanto saggio da avere capito che la caccia disperata di tutti gli esseri viventi è inutile e che soltanto l’attesa è fruttuosa. Leggevo con passione storie di ragni, di carcerati, che nell’oscura solitudine delle loro celle si intrattengono con dei ragni.«
24 Ivi, p.75 »Anche così si è un prigioniero, Andreas Pum! Come delle tagliole le leggi sono sparse per le vie percorse da noi poveri.«
25 Su Die Flucht ohne Ende, cfr. J. G. Lughofer, »Im Grunde war er ein Europäer, ein Individualist«. Die Flucht ohne Ende zwischen den Kulturen, in H. Fass in J.G. Lughofer (a cura di) Im Prisma. Joseph Roths Romane, cit,, pp. 132-151.
26 J.Roth, Werke IV. Romane und Erzählungen 1916-1929, Die Flucht ohne Ende, cit., p. 391. »Qui di seguito narrerò la storia del mio amico, camerata e compagno Franz Tunda. In parte seguirò le sue annotazioni, in parte i suoi racconti. Non ho inventato niente, non ho composto niente. Non si tratta più di ‘fare poesia’. L’importante è ciò che si osserva…«
27 Cfr. le affermazioni contenute nell’articolo Schatten des Vorworts, in J. Roth, Werke II. Das Journalistische Werk 1924-1928, cit., p. 511.
28 Non a caso qualche anno dopo Joseph Roth prese definitivamente le distanze dalla poetica documentaria della Neue Sachlichkeit. Cfr. Schluss mit der Neuen Sachlichkeit! in J. Roth, Werke III. Das Journalistische Werk 1929-1939, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1989, pp. 153-164. Cfr. sull’argomento W. Jehmüller, Zum Problem des »zweifachen Zeugnisses« bei Joseph Roth, in H.L. Arnold (a cura di), Joseph Roth, Text + Kritik, 1995, pp. 67-75.
29 Ivi, p. 26. »Gli scrittori vivono tutto attraverso il mezzo della lingua, non vivono esperienze senza formulazione.« In generale sulle caratteristiche stilistiche della scrittura di Roth cfr. i saggi raccolti nel volume Joseph Roth als Stilist, a cura di Nora Hoffmann e Natalia Shchyhlesvska, Winter, Heidelberg 2013.
30 Cfr. l’articolo del 1919 intitolato Heimkehrer, in J. Roth, Werke I. Das Journalistische Werk 1915-1923, cit., p. 41.
31 Die Flucht ohne Ende è stato definito romanzo di un »Heimkehrer ohne Heimat«, cfr. Wunberg, cit., p. 450.
32 J.Roth, Werke IV. Romane und Erzählungen 1916-1929, Die Flucht ohne Ende, cit., p. 396.
33 Ivi, p. 456. »È cultura europea questa?« chiese Franz indicando i Buddha, i cuscini, i larghi e profondi divani, i tappeti orientali: »Avete preso in prestito qualcosa, mi pare. I tuoi ospiti oggi hanno ballato danze negre che probabilmente non compaiono nel ‘Parsifal’. Non capisco come tu possa ancora parlare di cultura europea. Dov’è? […] Questa vecchia cultura ha ormai mille buchi. Voi li rattoppate con prestiti dall’Asia, dall’Africa, dall’America. I buchi si fanno sempre più grossi […]« »Facciamo qualche concessione, nient’altro« disse il direttore d’orchestra […] »Da sempre si sono presi degli usi stranieri per inserirli nella cultura.« »Ma dov’è la cultura in cui dovete inserirle? Non avete altro che contraffazioni di un’antica cultura. Sono forse gli studenti coi berretti colorati a sghimbescio a rappresentare l’antica cultura tedesca? […] Sta, quest’antica cultura, nei vostri cari tetti a cuspide in cui abitano operai, non artigiani, orefici, orologiai, maestri cantori, ma proletari […] Questa è una mascherata, non la realtà.«
34 Ivi, p. 486.